“Voglio dirvi una cosa che forse non sapete. Tutto quello che conosciamo del gioco del calcio noi ungheresi lo abbiamo imparato da Jimmy Hogan. Un inglese come voi.”

Nel pub era sceso un silenzio tombale.

La televisione trasmetteva le immagini della partita, e a seguire le interviste ai protagonisti.

Prima gli inglesi, poi gli ungheresi.

Un uomo sulla settantina era seduto ad un tavolo, e sorseggiava una pinta di birra scura.

Improvvisamente alzò lo sguardo.

Quelle parole gli fecero piacere, accennò un piccolo sorriso.

Le aveva pronunciate Sandor Barcs, presidente della Federazione calcistica ungherese, membro importante del Partito Comunista, e nei primi anni settanta presidente ad interim dell’UEFA.

Ma perché? Cos’era successo?

Facciamo un passo indietro.

25 novembre 1953, ore 14:15

Stadio di Wembley, Londra.

Centocinquemila spettatori trepidanti, per una partita che la stampa inglese definì “Match of the century”, la partita del secolo.

Inghilterra – Ungheria.

La nazionale inglese non aveva mai perso tra le mura amiche, ed era imbattuta da 24 partite.

Si ritenevano i maestri del calcio.

Avevano fondato la prima Federazione calcistica mondiale, nel 1863.

Erano forti i sudditi di Elisabetta II: Wright, Mortensen, Ramsey, Johnston e soprattutto “Sir” Stanley Matthews, che nonostante i trentotto anni era ancora in grado di fare la differenza.

Ma i magiari, campioni olimpici in carica, giocavano un calcio mai visto prima, e da anni davano spettacolo in tutta Europa.

Avevano una squadra imbottita di campioni.

Puskas, Hidegkuti, Kocsis, Czibor, Bozsik, Grosics.

Vinsero 6-3, travolgendo i “maestri”.

 “Il crepuscolo degli dei (del calcio)” scrisse in prima pagina il Daily Mail.

Il disegnatore Jack Dunklay paragonò la sconfitta contro gli ungheresi a quella nella battaglia di Hasting, nel 1066, contro Guglielmo il Conquistatore.

Esagerazioni certo, ma che facevano capire la portata della prima storica sconfitta casalinga dell’Inghilterra.

Ma perché il presidente Barcs pronunciò quelle parole di ringraziamento, verso un inglese tra l’altro, dopo la partita?

Chi era Jimmy Hogan?

James, detto Jimmy, nacque nel Lancashire, a Nelson, il 16 ottobre 1882 da una famiglia di origine irlandese. Studiò in seminario, ma dopo tre anni abbandonò gli studi, per dedicarsi alla sua vera passione: il calcio.

Ebbe una discreta carriera, giocò nel Burnley, nel Bolton e nel Fulham, con cui raggiunse la semifinale di FA Cup.

I tanti infortuni subiti lo costrinsero al ritiro quando non aveva ancora trent’anni.

Decise di fare l’allenatore.

Fu la prima grande intuizione della sua vita.

In Olanda, nel Dordrecht, iniziò la sua nuova avventura, e impressionò per metodi di gioco alternativi e per mentalità, tanto che la federazione gli propose la panchina della Nazionale dei Paesi Bassi.

Un anno dopo si traferì in Austria, nell’allora Impero Austro-Ungarico, sulla panchina dell’Austria Vienna.

Nel 1912 conobbe Hugo Meisl, un ex contabile, appassionato anch’egli di calcio.

Diventarono grandi amici, anche se avevano caratteri diversi: più calcolatore, organizzatore meticoloso Hugo, più fantasioso Jimmy.

Trascorrevano ore seduti nel loro locale preferito, il Cafè Central, al numero 14 di Herrengasse, a parlare di calcio e scoprire quali fossero i movimenti più efficaci di un centravanti, di un centromediano, oppure a pensare nuove metodologie di allenamento. E non gli importava se gli intellettuali seduti agli altri tavoli parlavano dei problemi della borghesia moderna e della crisi della politica europea. Per loro, il calcio nelle sue sfaccettature era una forma d’arte, soprattutto il calcio come lo intendevano loro. Erano degli “esteti”, amanti di un certo tipo di gioco, lontano anni luce da quello praticato nella patria di Jimmy, basato solo sulla forza fisica e sulla potenza.

Ma tutto sembrò finire con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

“Jimmy non restare qui, torna in Inghilterra, Vienna non è più una città per te”, gli consigliò Hugo, prima di partire per il fronte. Ma era testardo, Jimmy. In fin dei conti, pensò, “sono solo un allenatore di calcio, che si è costruito un nome ed è benvoluto”.

Ma pur sempre inglese, un nemico di sua maestà Francesco Giuseppe e dell’Impero Austro-Ungarico.

Si accorse che da almeno una decina di giorni, attorno al campo dove allenava, si aggiravano dei tipi loschi.

Non ne parlò con la moglie per non preoccuparla.

Una sera due agenti bussarono alla sua porta. “Venga con noi signor Hogan, non si preoccupi, una semplice formalità”.

Anche il direttore del carcere dove lo portarono, lo rassicurò, “Tranquillo, quando il ministro darà l’autorizzazione potrà tornare ad allenare i sui ragazzi”.

I giorni diventarono settimane, mesi.

Sei mesi a pane, acqua e patate.

Rinchiuso in quella cella umida pensò al consiglio dell’amico Hugo.

Ma soprattutto pensava alla moglie, incinta del primo figlio.

Poi però, quando il peggio sembrava non avere fine, un signore, un barone di nome Dirstay, si interessò al suo caso. Promise di occuparsi della moglie e di farla rimpatriare in Inghilterra.

In cambio Jimmy avrebbe dovuto traferirsi in Ungheria per allenare la squadra di cui il barone è presidente, l’MTK.

Accettò.

A Budapest arrivò dopo un infinito viaggio in macchina durato dodici ore, con la sola compagnia dell’autista.

Finalmente un po’ di luce dopo i mesi bui del carcere.

Si sistemò in una casa che era la dépendance del barone, e passò i primi giorni di ambientamento passeggiando nel quartiere.

Le strade erano piene di ragazzini che giocavano a calcio; avevano qualche lacuna tecnica, ma avevano temperamento e scaltrezza, tipica di chi cresce per strada.

Ottenne ottimi risultati con l’MTK.

La sua missione era insegnare calcio ai ragazzi. Formare nuovi calciatori attraverso le sue idee.

Hogan fu tra i primi allenatori a prestare particolare attenzione all’alimentazione, e a curare la preparazione fisica dei calciatori con delle sedute molto dure.

Ma sempre con il pallone. E fu questa una delle sue novità, una delle sue idee rivoluzionarie. A differenza di quello che si faceva nella sua madre patria, intendeva dare un impronta differente alle squadre; gioco palla a terra, rapidità nei passaggi, nelle giocate, e dare spazio alla creatività.

Insomma, un calcio nuovo.

Diventò così popolare, che le persone quando lo incrociavano per strada si toglievano il capello in segno di rispetto.

Trascorse quattro anni in Ungheria.

Un periodo bello, ricco dal punto di vista delle soddisfazioni professionali.

Ma il richiamo della famiglia era troppo forte, e quando la guerra finì, decise di tornare in Inghilterra.

Cercò subito un impiego presso la Football Association, la massima organizzazione calcistica del paese.

Ma per lui, incredibilmente, non c’era posto. “Lei ha lavorato per il nemico, mentre i nostri giovani morivano al fronte. E adesso vorrebbe un lavoro? Si vergogni! Lei è un traditore!”.

Un colpo durissimo.

“Come possono chiamarmi traditore? Io che ho fatto sei mesi di carcere proprio perché sono inglese”, disse alla moglie, incredulo per questa situazione che reputava ingiusta. Si considerava una brava persona, pensava di non meritarsi questo trattamento.

Dopo un periodo di giustificata delusione, continuò il suo girovagare per l’Europa.

Strinse una bella amicizia con Vittorio pozzo, commissario tecnico campione del mondo con la nostra Nazionale, nel 1934 e 1938. Erano diversi per idee calcistiche, ma li univa una stima reciproca.

In Svizzera, Jimmy collaborò con Teddy Duckworth e Izidor Kurschner nella preparazione della Nazionale che arrivò in finale alle olimpiadi del 1924, persa contro L’Uruguay. Negli anni trenta si ricongiunse con il vecchio amico Hugo Meisl, e gettarono le basi del leggendario Wunderteam austriaco.

Alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936, guidò ancora la “sua” Austria che perse in finale con l’Italia.

Qualche parentesi in patria con Fulham e Aston Villa, con quest’ultima che tornò ai vertici del calcio inglese nel giro di tre stagioni.

Ma era arrivata l’ora della rivincita. La sua rivincita.

Seduto nelle tribune di Wembley c’era anche lui, il traditore Jimmy.

A settantuno anni, chiuso nel suo cappotto per proteggersi dal vento freddo, scrutava i volti dei dirigenti che lo avevano bollato come non degno di un ruolo nel mondo del calcio inglese.

Era una storia vecchia di quarant’anni, ma la cicatrice, nella sua anima orgogliosa, era ancora fresca. In Austria, In Ungheria, in Olanda e in Svizzera lo consideravano un maestro del gioco del calcio.

Non a casa sua.

Comprò un biglietto vicino alla tribuna d’onore.

Seguì con lo sguardo l’allenatore della nazionale magiara Gustav Sebes, uno dei suoi ragazzi del periodo ungherese.

Si erano incontrati pochi mesi prima, il maestro e l’allievo.

Sebes gli raccontò di quando fu convocato nella sede del Partito. Pensava di trovarsi di fronte i soliti dirigenti, nel consueto appuntamento settimanale per programmare allenamenti e partite. Invece si trovò davanti Imre Nagy e Matyas Rakosi, rispettivamente capo del governo e segretario del partito.

Voi giocherete contro l’Inghilterra compagno Sebes. Sappiate, e lo dico per il vostro bene, che questa sarà la sfida tra l’imperialismo e il comunismo e capirete bene che non possiamo perdere. Questa è un’occasione unica per mostrare al mondo ciò che la classe operaia dell’Ungheria sa fare. Non ci deludete, ne va del vostro onore”, gli disse Rakosi.

Era preoccupato Gustav. Ma Jimmy lo tranquillizzò. Sapeva della superiorità degli ungheresi.

Sebes gli mostrò i suoi appunti sulla partita e sugli avversari, e dopo aver ricevuto l’approvazione del suo mentore, si congedarono.

Aveva ragione Hogan. Troppo più forti Puskas e compagni.

Una disfatta così forse era nell’aria, ma nessuno osava nemmeno immaginarlo tra gli inglesi.

La Regina Elisabetta II apprese la notizia mentre era in viaggio di stato nei paesi del Commonwealth.

Il Primo Ministro Winston Churchill, nel suo ufficio di Downing Street, con il solito bicchiere di whisky in mano, non si capacitava della sconfitta della sua Nazionale.

Pensò che forse non rimaneva più niente della vecchia gloria inglese.

Jimmy uscì dallo stadio e vagò senza meta per le strade di Londra.

Seduto in quel pub, dopo aver ascoltato le parole del Presidente della Federazione calcistica ungherese, gli passò davanti tutta la sua vita: i successi, le delusioni, il NO sbattuto in faccia dai vertici della Football Association.

Adesso era considerato il padre del calcio ungherese, e uno dei fondatori della celebre scuola danubiana.

Si alzò, salutò il proprietario e si incamminò, direzione Piccadilly.

Nel suo volto un accenno di sorriso. Il sorriso di chi ha trovato il tassello mancante per completare il quadro della propria vita.

E l’aveva trovato in quelle parole.

Jimmy Hogan allenò fino al 1955.

Morì il 30 gennaio 1974, all’età di 91 anni.

Nessuna testata giornalistica lo commemorò.

Ma forse non importava.

Lui la felicità l’aveva raggiunta un giorno di novembre di ventun anni prima.

Tra gli allenatori-manager più influenti della storia del calcio, di cui è stato uno dei più importanti pionieri, ma forse troppo spesso dimenticato.        

Era un uomo tutto d’un pezzo, un signore dai modi garbati, che si scontrò con il senso di superiorità dei suoi connazionali.

E ne uscì vincitore nella partita più importante.

E’ stato un traditore per pochi.

Eroe e maestro per tanti.