“Ma è gol?” chiese Ettore Cantarutti, che con quel nome e cognome potrebbe essere uscito tranquillamente da un film di Verona.

“È passa’ e g’ha fatto il buso” rispose, in dialetto veneto, e con una certa sicurezza, Libero Lodolo, estremo difensore dell’Udinese, udinese puro sangue.

E’ passata e ha fatto il buco.

Al 127esimo minuto della prima finale di Coppa Italia, come se fosse una partita di quelle da giocare in cortile, insieme agli amici, dove il triplice fischio lo dà il tramonto del sole o l’urlo di una mamma dalla finestra, con porte senza reti e con facce sfinite, si rivela tutta la potenza di Felice Levratto.

Mark Lenders prima di Mark Lenders, con la piccola differenza che è esistito davvero.

E che la rete l’ha bucata realmente.

A 17 anni era già decisivo. Con il trionfo storico che ha scolpito nella mitologia calcistica il nome del Vado Ligure.

Potenza assoluta, ala sinistra quando all’ala non si cercava equilibrio o corsa, ma solo gol. Tanti gol. Tanti quanti realizzati dal ragazzo che Vittorio Pozzo chiamò, a soli 19 anni, per le Olimpiadi di Parigi. “Il Centrattacco” per il Quartetto Cetra, “lo Sfondareti” per tutti gli altri, a eccezione di Ricardo Zamora, il leggendario portiere spagnolo: lui lo chiamava “El Mortero”, il Mortaio.

Eh sì, anche l’estremo difensore di Barcellona e Madrid, soprannominato “El Divino”, si piegò sotto la forza di questo teenager, all’ombra della Tour Eiffel: pallone accecante e braccia piegate, neanche l’epica Zamorana (parata coi gomiti o con gli avambracci) poté fare qualcosa. Sembrava davvero di stare in Holly e Benji: soprannomi, parate che hanno un nome proprio, tiri che fanno paura nel vero senso della parola.

Chiedere, pochi giorni dopo, al portiere del Lussemburgo …

Sfondava le reti, ma spaccava anche le facce. Come Mark Lenders con il vice Benjamin Price, Alain Crocket. Ma a differenza del ragazzo con le maniche alzate, Levratto aveva pietà. Seconda partita a 5 cerchi, palla che vola in aria, terreno che si avvicina e … boom, botta al volo.

La rete era pronta a sfondarsi nuovamente, a lacerarsi di fronte a tanta vigoria e sfrontatezza, ma … ecco il volto del portiere avversario! Peggio di un pugno di Jack Johnson, che 16 anni prima scrisse la storia del pugilato: sangue, bocca tumefatta e la voce in dialetto genovese di Levratto in sottofondo: “Io l’ho matò”.

Un colpo secco che stordì il portiere lussemburghese, il quale stoicamente tornò in campo, con un batuffolo di cotone in bocca. Passarono 10 minuti. E Levratto, lanciato a rete, si presentò di fronte al suo avversario ferito: altra bomba in arrivo?

L’attaccante cresciuto nel Vado, che poi vestì anche le maglie di Genoa, Ambrosiana Inter, Verona e Lazio, non fece in tempo a esplodere tutta la sua potenza che il portiere nascose il volto dietro le braccia, in segno di resa: un Willy il Coyote che vede Beep Beep con la dinamite della ACME in arrivo, a tutta velocità e incontrollabile.

E quindi? “Levratto il magnanimo” avrebbe detto il popolo di Roma al Colosseo: sì, perché il “Levra” rinunciò alla rete, rotolò a terra e si mise a ridere come un matto.

Se stesso, sempre e comunque. Con quel sinistro che, parola sua, veniva definito “inumano”. Se stesso in campo, se stesso fuori.

Uomo tutto d’un pezzo, fisicamente “spesso” per quei tempi, ma anche per questi: in una foto con Meazza è largo il doppio.

Un uomo forte e sicuro di sé, che rimaneva fedele al suo essere.

Un esempio? Roma, allenamento di preparazione, dei tifosi fuori dal campo iniziarono a insultarlo, storie di preferenze tra giocatori. Poco male: lo “Sfondareti” superò la rete di protezione e da magnanimo si trasformò in incazzato, con pugni ad abbattere chi gli aveva mancato di rispetto. “Altri che vogliono criticare un uomo simile?” si mise a urlare dopo aver portato a termine la sua missione. Come un Bufalo invecchiato in Romanzo Criminale.

Il tempo che passa, il sinistro che resta sempre lo stesso, che buca ancora reti, come in un Inter-Alessandria dove viene marcato bene per tutto il tempo, tranne che per qualche istante: controllo, tiro, gol, palla fermata da chissà chi, chissà cosa. Non sicuramente dalla rete: quella non era in grado di trattenere il sinistro del “Mortaio”.

“Mortaio” che nel 1928, nelle Olimpiadi che diedero il bronzo agli Azzurri del calcio, contro la Spagna mandò alle spalle del portiere la palla con due avversari, bucando ovviamente la rete, come contro l’Uruguay in una gara poi persa.

Altro calcio, altro pallone, altra forza.

Quella di un uomo che il calcio non l’ha mai abbandonato: allenatore dopo aver fatto il calciatore, l’italiano più forte di tutti senza aver vinto uno scudetto, con un pallone che rotolava sino agli ultimi giorni della sua vita.

Sì, perché leggenda narra che dopo giorni difficili, passati per lo più da incosciente, gli comparve un campo da calcio in una visione, con lo Sfondareti che incitava ragazzi immaginari: “Vai, via, avanti!”. Indicava e consigliava, incitava e caricava. Come il suo sinistro, che non conosceva confini. “Ma è gol?” “È passa’ e g’ha fatto il buso”