«Da sempre ho sognato di giocare a calcio. Quella sarebbe stata la mia vita. Ne ero sicuro. Lo sono sempre stato. Ho iniziato a fare provini dall’età di 13 anni. Non credo esista un solo Club professionale di Buenos Aires dove non abbia tentato di entrare. Ma per un motivo o per l’altro venivo sempre scartato. Il tempo intanto passava ma io non ho MAI smesso di crederci.

Intanto però ero arrivato alla soglia dei 20 anni. Mi mancavano 3 mesi per quella che era l’ultima età possibile per entrare nelle giovanili di un Club. Leggo su un giornale che “alla fine della settimana si chiudono i provini per i ragazzi del ’71 e del ’74”.

Io sono del ’71. Il Club è il Velez Sarsfield. Mi presento al campo dove si svolgerà il provino. Ho i capelli lunghi, la barba non rasata e sono “gordo”, sovrappeso. Non sono un bello spettacolo. Ho con me una borsa di plastica con dentro il mio vecchio paio di scarpette … tacchetti intercambiabili di alluminio. Il campo sembra una lastra di marmo. I piedi mi fanno un male cane e faccio fatica a stare in piedi. Poi penso “anche se mi rompessi tutte le ossa domani non ho niente da fare. Posso starmene a letto o in ospedale”. Per cui chissenefrega.

Gioco come se fosse l’ultimo giorno della mia vita. E per quanto riguardava i miei sogni di ragazzino beh … forse lo era davvero.

Segno due gol, nessuno riesce a fermarmi. Quando non riesco a saltare i miei avversari in dribbling o in velocità li butto giù come birilli. Mi dicono che sono piaciuto. “Torna fra un mese e mezzo. Ma quando torni devi essere almeno 6 kg di meno”.

Quando torno di kg ne ho persi 7. Ho fatto una fatica pazzesca, mi sarei mangiato la mia anima dalla fame che avevo. Ma mi prendono. Dopo poche settimane  firmo il mio primo contratto da professionista.

Gioco nel Quarto team all’inizio. Per me è già un sogno ma so benissimo che questa è una fase di passaggio, che sarà per poco. Segno a raffica e dopo neanche sei mesi sono già in prima squadra. Il Mister, il “bambino” Vieira mi convoca e contro il Talleres faccio l’esordio in prima squadra. Puoi anche vincere tutti i trofei che ci sono sulla terra ma quel giorno lì non te lo scordi neanche in mille anni. Alla vigilia ero un fascio di nervi, temevo qualcosa andasse storto, che mi sarei bruciato la mia occasione e sarei tornato a tirar calci ad un pallone in qualche “cancha” scalcinata del mio povero barrio, Ciudad Evita, dove con il calcio e solo il calcio nella testa ho evitato da ragazzino di finire come tanti, troppi miei coetanei … ucciso in una sparatoria, in carcere o distrutto dalla droga.

Ma una volta in campo capisco che quello è il mio posto, l’unico forse dove non mi sono mai sentito davvero a disagio.

Poco più di due anni dopo arriva colui che trasforma letteralmente la mia vita di calciatore. Trasformando nel contempo quella di una quindicina di miei compagni di squadra e anche quella di qualche milione di tifosi del Velez.

Carlos Bianchi.

Non pago di essere entrato nella leggenda come il più grande attaccante della storia del Club decide di riscrivere la storia del “Fortin”.

E’ con noi da poche settimane. Abbiamo da poco giocato la nostra prima partita ufficiale.  Alla fine del match  ci fa sedere tutti in un angolo dello spogliatoio, quello più lontano dalle orecchie di dirigenti e giornalisti.

Ci dice le parole che cambiano la mia vita di calciatore, che mi portano in un’altra dimensione, che mi convincono che stare nella parte alta della classifica non può e non deve bastare … nè a me né ai miei compagni.

Ci guarda dritto negli occhi e ci dice “non ho mai visto in tanti anni di calcio un gruppo umile, coeso e affamato di calcio come voi. Con la vostra attitudine arriverete un giorno a vincere la Libertadores”.

Nessuno, nessuno di noi, sorride, fa battute o minimizza. Ci guardiamo in faccia l’un l’altro. Sappiamo che è vero. Possiamo farlo.

Dentro di noi scatta qualcosa. In fondo ha ragione. Siamo praticamente tutti figli di gente povera, umile e che di soldi ne ha sempre visti pochi. Avevamo fame, tanta. Altrettanta voglia di lottare, di vincere. E sapevamo giocare a calcio.

Vinciamo immediatamente il Clausura. E’ il 1993. Ho ventidue anni. Ho voglia di misurarmi contro i più forti, di conoscere i miei limiti … che in questo momento sinceramente non riesco a vedere.

L’occasione è immediata; giochiamo la Copa Libertadores, il trofeo più importante del Sudamerica. Ci sono tutti i migliori del continente. Siamo inesperti, giovani e ancora ingenui. Ma ci servirà per fare esperienza dicono. Si, loro dicono così, ma Bianchi che “fuori” si allinea al pensiero generale a noi dice il contrario. “Di chi dovete avere paura ? Di chi ? Voi che conoscete la vita dei Barrios di cosa potete avere paura ? Di giocare davanti a 100.000 persone al Maracanà o al Morumbi ? Lo avete sognato da sempre. Quest’anno probabilmente ci andrete davvero. Pensate solo a questo … è un altro sogno che si realizza”.

Andò a finire così.

Segno il gol decisivo della partita di andata. Ne segnerò tanti, talmente tanti da vincere la classifica marcatori di quella indimenticabile Libertadores.

Siamo sul tetto d’America. Chi lo avrebbe immaginato ? Bianchi continua a dirci che non ci dobbiamo fermare, di non pensarci nemmeno. “Potete riscrivere la storia di questo grande Club ragazzi”.

Mister, senza di lei non avremmo avuto neanche la penna …

Non ci fermiamo, non ne abbiamo alcuna intenzione. Claudio Husain, Roberto Trotta, quel matto di Josè Luis Chilavert … prenderebbero a calci nel culo chiunque tra di noi pensasse di accontentarsi.

A dicembre giochiamo la finale della Coppa Intercontinentale, il Campionato del Mondo per Club. Beh, stavolta è dura davvero ragazzi. Ci sono gli italiani del Milan. Sono cinque o sei anni che danno lezioni di calcio e che sollevano trofei in serie. Qualche mese prima hanno strapazzato in finale di Coppa Campioni il Barcellona di Cruyff.

Prima di scendere in campo Bianchi ci fissa dritto negli occhi: “di cosa avete paura ragazzi ? Di chi ? … ecc ecc ecc.

Loro sanno giocare a calcio. Per davvero. Ma noi lottiamo su ogni pallone come invasati. Loro sanno giocare a calcio. Una tecnica da far paura ! Boban, Savicevic, Baresi, Maldini … ma noi corriamo, picchiamo, saltiamo quanto e più di loro. Qualche volta sembra quasi che giochino guardandosi allo specchio. Si credono più forti e magari lo sono davvero. Ma a calcio, spesso, vince chi vuole vincere DAVVERO. Chi vuole vincere di più. Loro sono da anni ormai su questi livelli. Magari pensano che torneranno a Tokyo per questa finale ancora l’anno prossimo … e magari anche quello successivo.

Noi no. Noi sentiamo, sappiamo che non capiterà mai più. Alla fine di questa stagione magica arriveranno le lire, le sterline o i marchi tedeschi a portare dall’altra parte del mondo tanti di noi. No, non capiterà più.

E allora proviamoci. Lottando, correndo, picchiando e saltando più di loro.

Roberto Trotta ci porta in vantaggio. Su rigore. Quando l’arbitro concede il rigore ci abbracciamo e festeggiamo come avessimo già segnato. In fondo ai rigori siamo diventati imbattibili. Li sappiamo tirare e Chilavert li sa parare (e anche tirare !).

Trotta calcia uno dei rigori più brutti che io abbia mai visto. Colpisce più terra che palla. Definirlo “sporco” è un eufemismo. Il tiro è tutt’altro che forte ma in compenso … è anche centrale ! Ma Rossi, il “gigantote” che hanno in porta, è già steso sulla sua sinistra, la palla gli tocca un piede ma in porta, nonostante tutto, ci arriva.

Segno io il secondo gol. Tassotti ha la palla. Deve solo fare un semplice passaggio indietro al portiere. Io sono a più di dieci metri dall’azione. Mi sto quasi fermando. Meglio tornare indietro a dare una mano ai miei compagni di centrocampo. Stiamo vincendo uno a zero. Il Milan attacca a ondate con tutti i suoi talenti. Ma, come ho sempre fatto nella vita, ci credo sempre, anche quando sembra impossibile. Ci credo anche stavolta. Non si sa mai mi dico … anche i campioni possono sbagliare.

Chissà che stavolta non tocchi anche ad uno dei terzini più forti del mondo.

E succede davvero ! Il tocco di Tassotti è corto, il loro portiere è quasi due metri e non è certo un fulmine. Arrivo sulla palla prima di lui.

Me la porto forse un po’ troppo sull’esterno, ma mi invento una torsione che mette a dura prova i miei legamenti ! I legamenti tengono e, cosa ancora più importante, la palla dopo una parabola che sembra interminabile va a finire la sua corsa a pochi centimetri dal palo lontano … in fondo alla rete.

Ci difendiamo fino alla fine. Con i denti, con Chilavert e con un po’ di fortuna.

Ma ce la siamo meritata tutta.

Per altri due anni, nonostante tanti miei compagni decidano di andarsene altrove, continuiamo a vincere. Altri due campionati ad esempio e una Copa Interamericana.

Ma poi ad andarsene è proprio Bianchi. Lo vogliono proprio in Italia, a Roma, la città eterna.

Ma il suo soggiorno è tutt’altro che eterno.

“El Fortin” senza di lui non è la stessa cosa.

Se ne vanno quasi tutti. Non io. Io amo il Velez. Amo il mio paese e il mio Barrio. Dove dovrei andare ? In una delle decine di squadre che mi hanno scartato da ragazzo ? All’estero ? No. Io rimango. Il José Amalfitani è la mia seconda casa.

I gol iniziano a farsi più radi, e le ginocchia a indebolirsi. A 29 anni devo lasciare il calcio. Giocavo sempre al limite, non mi sono mai tirato indietro. Mai.

Col senno di poi avrei potuto rischiare meno qualche volta, tirare indietro il piede, o lottare con meno intensità. Ma so che mi sto raccontando balle. Io sono così e non avrei potuto giocare diversamente.

E poi quanti possono dire di aver segnato nella Finale di Copa Libertadores  E nella finale di una Coppa Intercontinentale ?

Io si. “El Turco” Asad si.»

n.b.: il pezzo scritto tutto in prima persona è “romanzato” dall’autore anche se basato fedelmente su decine di interviste, articoli e filmati su Omar Asad.