Uno dei miei più cari amici si chiama Mauro Pepe ed è un mental coach sportivo. E ricordo come fosse ora la reazione stizzita quando gli parlai del tatuaggio.

È un po’ come ricordare ogni giorno il proprio fallimento, mi disse. Punto di vista ben più che comprensibile.

Non sono in molti a riuscire a portare allegramente in giro l’immagine dell’istante incompiuto, del kairos che ti volta le spalle, della Nike che diventa Nemesi; no, davvero ci vogliono le spalle larghe per riuscire a portare sulla pelle quella sensazione di incompiutezza stemperandola con la camminata scanzonata di chi sa d’aver mancata la mission della vita, ma se ne fotte; di chi è ben consapevole d’aver infilato la sliding door sbagliata, ma ne ride. 

Il tatuaggio sintetizza in poche linee quel che accadde il 28 Giugno del 2014 a Belo Horizonte. Quei pochi tratti riescono mirabilmente a sublimare e miscelare attimo cogente e carriera calcistica. Belo Horizonte, che bel nome. Tutto sembrava propizio per il compimento di una profezia, per la vittoria finale che sempre s’accompagna al Viaggio dell’Eroe. Ma l’avrete capito che le divinità del calcio sono capricciose, spesso sadicamente divertenti e quel giorno seppero tessere un ordito drammatico.

Ma cosa successe?

Il 28 Giugno del 2014, al 119mo minuto di Brasile-Cile, Mauricio Ricardo Pinilla Ferrera chiese e ottenne un triangolo da Alexis Sanchez, scansò come fosse la cosa più facile del mondo l’intervento di Thiago Silva, ai tempi il miglior difensore del mondo, e scagliò una folgore. Avete presente lo schiocco di un albero abbattuto da un fulmine? Bene, la traversa del Brasile emise un genito simile. Ma la palla non volle saperne di entrare, s’alzò alta sopra la tormentata storia di Pinilla e decise che no, quel giorno sarebbe stato risparmiato al Brasile un altro Maracanaço. Quel giorno, almeno. O forse proprio quel giorno cominciarono a ordire altri progetti per Belo Horizonte, le sadiche e capricciose divinità del calcio.

La profezia che voleva il giovane Pinilla essere considerato più completo di Salas e Zamorano fu sfatata del tutto quel giorno. Pochi centimetri più giù e la Storia di quel mondiale sarebbe cambiata e avrebbe dato un senso ai pazzi undici anni di Pinilla. Dal 2003 al 1014 Mauricio vestì infatti le casacche di ben 13 squadre, forse un record o forse no in questo calcio caleidoscopico e tritatutto, riuscendo a passare da attimi di gioia a momenti veramente difficili, con ricoveri in clinica per disintossicarsi forse dall’alcol e dagli attacchi di panico, con la disarmante facilità e leggerezza con la quale eseguiva uno dei colpi più difficili e spettacolare del calcio, la Chilena, che noi chiamiamo rovesciata.

Nel 2003 arrivò, per tre milioni di euro, alla bulimica Inter, all’epoca regina di mercato e scatenata sul mercato dei talenti, grazie al fiuto di Marco Branca su imbeccata di Ivan Zamorano, elemento totemico in Cile. Aveva 19 anni, essendo nato nel 1984, ma il suo nome circolava in tutto il sudamerica ogni volta che si chiedeva a un procuratore un futuro craque.

Lo chiamavano Pinigol.

S’era messo in luce all’Universidad de Chile e con le nazionali giovanili. Branca l’aveva visto segnare in rovesciata e si convinse a prendere quel ragazzo dai grossi mezzi tecnici e fisici che per certi versi ricordava Branca stesso, un altro che avrebbe potuto segnare il doppio delle reti effettivamente messe a referto.

All’universidad de Chile, Pinilla aveva giocato insieme a Faustino Asprilla. Mauricio aveva visto i danni che la dirompente e pervicace forza autodistruttiva sa porre in essere nella mente e nelle azioni di chi sceglie di sperperare il proprio talento, ma evidentemente gli riuscì difficile pensare a tutto ciò a soli 19 anni. Non quando hai torme di ragazze adoranti intorno a te, e non quando pensi di poter dribblare la vita con una finta o prenderla gioiosamente a calci come fosse l’ennesima chilenita.

Nel 2003 aveva già esordito, con gol al debutto, anche nella nazionale A. Dal momento che quell’Inter aveva, con Vieri, Julio Cruz, Recoba, Kallon, Adriano e il coetaneo Martins, una formidabile batteria di frombolieri, si decise di mandare Pinilla a farsi le ossa al Chievo di Del Neri. Pessima scelta: il Chievo di Del Neri giocava a memoria, con un 4-4-2 nel quale uno dei 2 faceva da boa per le incursioni a rimorchio dell’altro. Soprattutto, non aveva senso cambiare un meccanismo che funzionava come un orologio per cercare di far rendere al meglio quel cileno alto, tenico e con la faccia che non sfigurebbe in un film di pirati. E allora Pinilla cominciò a girare per l’Europa e per il mondo.

Non giocherà un minuto di serie A con l’Inter. 

Per quanto giovane, o proprio perché lo era, Pinilla divenne mediaticamente sovraesposto, e forse proprio la morbosa e scopofila attenzione che già a vent’anni riceveva dalla stampa del suo paese, che se da un verso lo coccolava per un altro non gli perdonava di fare poca vita da atleta, non mancando di usare anche le sue relazioni sentimentali per vendere di più, sarà uno dei detonatori che faranno deflagrare le insidie nascoste nella sua immaturità, facendo deragliare aspettative e carriera. Non era abituato a tutto ciò, Mauricio. Né forse aveva le spalle abbastanza larghe per sopportare una simile pressione.  

Pinigol cominciò a diventare Pinigel, con anche un comico che ci mise il carico da undici con una parodia.

Ovunque andasse in quegli anni, Celta, Sporting Lisbona, Racing Santander, Hearts, ritorno in Cile all’Universidad, ancora Hearts, Vasco da Gama e Apollon, la musica era sempre la stessa: partenza quasi sempre bene, in Portogallo cominciarono a chiamarlo Pinbomba, del resto la classe non è acqua, per poi finire, per un motivo o per un altro, infortuni, depressione o l’equivalente cilena della saudade, in un (de)crescento rossiniano.

Due soli gol in cinque partite nel campionato cipriota sono davvero poca cosa. Però imparò a pescare molto bene.

Il Vasco addirittura retrocesse.

Non per colpa sua, visto che giocò solo tre partite, prima di partire, navigatore al contrario, verso il Mediterraneo. Pesante, svogliato, sovrappeso, Mauricio a venticinque anni sembrava destinato a terminare la carriera. Se il lato calcistico andava male, malissimo, per uno che avrebbe dovuto dare dei punti a Salas e Zamorano, in patria era sempre oggetto di attenzioni mediatiche. E come non esserlo se le donne, nonostante tutti i non-gol, nonostante le promesse mancate sul campo, si scioglievano per lui. È di questi tempi la lite con il coetaneo Luis Jimenez, ex Ternana, Lazio e Fiorentina, Inter e Parma, un altro che avrebbe potuto dare di più. Chissà cosa sarebbe stato il Cile se Luis e Mauricio avessero centrato le aspettative? I due arrivarono alle mani in una discoteca, forse per via della compagna di Jimenez.

A Edimburgo trovò il presidente Romanov, che prese a volergli bene, ne rilevò il cartellino dallo Sporting e cercò di farne il perno degli Hearts. Anche i tifosi, nonostante le pochissime apparizioni, non si capacitavano sul perché e per come uno del genere giocasse in Scozia. Anni duri e bui, quelli tra il 2006 e il 2009; Mauricio divenne papà di Augustina e si lasciò con la compagna Gisella; girò per il mondo, calcistico e non, senza concludere nulla; cercò di ritrovare se stesso a Marbella, in una clinica nel quale lo spedì il presidente Romanov, che in quel ragazzo ci credeva davvero.

Il lituano Vladimir Romanov pagò le cure necessarie per curare lo stato depressivo del suo ariete, contando di poterlo avere, lucido, abile e arruolato, per iniziare a fare la storia del club. Come spesso capita a chi si fa del male da solo, ricordate la vena autodistruttiva che ho accennato più sopra in merito ad Asprilla?, Mauricio litigò con Romanov, rifiutandosi di firmare un contratto a incentivi, legato a presenze e gol. È questo il periodo immediatamente precedente alle tre presenze nel Vasco e alle cinque nel campionato cipriota.

Per un po’ cercò di accasarsi al prestigioso Gremio di Porto Alegre, ex club di Renato Portaluppi, altro talento sperperato in notti brave, ma neanche la società portoghese del Vitória Guimarães se la sentì di investire in quel ragazzo che portava innanzi a sé la nomea del tiratardi, del beone, dell’attaccabrighe. Che andasse a cantare! Già, perché Pinilla da giovane canticchiava anche, quando il mondo sembrava essere ai suoi piedi.

Preda dei suoi demoni, generati da un successo troppo prematuro e da una immaturità di fondo dovuta non tanto a storie da libri cuore, la famiglia Pinilla viveva ben più che discretamente, quanto forse al fatto di essere stato sin da piccolo viziato anche dalle sorelle, Mauricio nell’estate del 2009 stava per affogare nei vortici di una mente resa fragile dalla consapevolezza di star buttando via tutto quel ben di Dio. Pure una squadra della serie b belga gli disse di no.

Sia come sia, in Italia qualcuno si ricordò di quel giovane preso dall’Inter, e a questa notorietà, inutile dirlo, contribuirono anche le sue bravate, che però ebbero almeno il merito di non far cadere nell’oblio anche quel poco di scintillante che s’era intravisto attraverso la fuliggine delle sue imprese fuori dal campo.

Se ne ricordarono i dirigenti del Grosseto, ai tempi in serie B, che lo ingaggiarono con un contratto da 130.000 euro. Allenatore era Gustinetti, poi sostituito da un ancora poco noto Maurizio Sarri.

Con il Grosseto, Pinigol diede senso all’accostamento fonetico con Batigol. Marcò 24 gol in 24 partite, uguagliando anche il record del puntero argentino che, con la Fiorentina, era andato in gol per 11 giornate consecutive. Giocò alla grande, Pinilla, anche se le 24 partite sono pochine per via di due infortuni. Senza quei due pit stop magari il Grosseto avrebbe centrato i play-off. Ma tutti, tutti!, a cominciare dai compagni di squadra si resero conto che Pinigol era un lusso per la categoria. Giocò così bene che Mauricio sperò anche in una convocazione per i mondiali africani; sperò ardentemente che uno come Marcelo Bielsa, un rosarino purosangue, amante del gioco d’attacco e dei mustang calcistici, desse una opportunità a un Pinilla tirato a lucido. Così non fu, Mauricio ci rimase male, ma si consolò anche con una ritrovata serenità familiare, frutto della riconciliazione con Gisella e con la messa in cantiere di un’altra bimba, Matilda, che nascerà a Palermo. Perché dopo l’ottima annata in Toscana la serie A tornò a corteggiare il ragazzo scovato da Branca, che alla fine scelse la corte di Zamparini e la città che aveva fatto da culla la coorte di Federico II, lo Stupor Mundi. 

Mauricio scelse la maglia numero 51 in luogo della giovanile 15, quasi a voler marcare, anche numericamente, una decisa e decisiva inversione di tendenza. Patì naturalmente diversi infortuni, quelli non mancheranno mai, ma riuscì a mettere a verbale 9 reti in 31 gare, con i rosanero all’ottavo posto.

Nel Settembre del 2011 scagliò una bomba nel sette della porta dell’Inter facendo esplodere il Renzo Barbera in un Palermo-Inter 4-3 che da quelle parti ancora ricordano. Non rimarrà l’unico segnato alla squadra che l’aveva portato in Italia, nel calcio dei Grandi.

Adesso il suo nome girava per davvero, ma per raccontar di calcio e non di notti brave; ritornò in nazionale, ma ritornarono anche gli infortuni e i tempi lunghi. Mauricio cominciò a perdere posizioni nelle gerarchie d’attacco e decise di partire ancora.
A Gennaio del 2012.
Destinazione Cagliari, ennesima città di mare e sole.

Non ci mise molto a convincere i cagliaritani d’aver per le mani, se non un emulo di Rombo di Tuono, perlomeno un più che degno erede dei Fonseca e degli Oliveira. In più, l’esuberanza fisica, l’allure e l’atteggiamento da capopopolo di Mauricio ne favorirono l’inserimento in tempo zero. Alla seconda partita segnò contro la Roma, poi ne fece altri. Pur frenato da numerosi stop i due anni a Cagliari furono bellissimi. Mauricio divenne il califfo che avrebbe potuto diventare. Dimostrò di saper segnare, da vero bucaniere dell’area di rigore, in tutti i modi: di destro e di sinistro, di testa (con la quale punì ancora l’Inter andando a raccogliere, come un conquistador, l’applauso della curva), su rigore e punizione, da fuori area e da opportunista dell’area piccola.

Più il bonus track, il marchio di fabbrica: la chilenita.

Bonus del bonus track: a Cagliari nacque anche l’erede maschio, di nome Mauricio Alessandro.

Per un momento, l’Inter sembrò riavvicinarsi a lui, che rispose dicendo che era la squadra della sua adolescenza, in quanto team del suo idolo e procuratore Ivan Zamorano. Ma non era più il tempo, il kairos era passato.

Piccola nota: Zamorano gestiva la carriera di Mauricio insieme a Hugo Rubio. Bene, in più ferrati di voi ricorderanno che Rubio e Zamorano furono acquistati, insieme, dal Bologna di Maifredi nel 1988, quando si introdusse il terzo straniero. 

Anche con la nazionale, dicevo, le cose cominciarono ad andar meglio, Jorge Sampaoli lo convocava con regolarità e lo fece entrare, da sostituto, nella partita con l’Ecuador, decisiva per accedere a Brazil 2014.

Già, Brasile-Cile, quella finta a scartare Thiago Silva come fosse il paletto per uno slalomista e quel tiro magnifico, troppo magnifico. Se l’avesse colpita più sporca, forse quella palla sarebbe entrata e al minuto 119 il Cile avrebbe eliminato i verdeoro. E poi? Chi può dire cosa sarebbe successo con in campo un Pinilla integro nel fisico e rinfrancato nel morale? Ma queste ipotesi appartengono all’ucronia calciatica.

Quel bolide si stampò sulla traversa, ma le capricciose e sadiche divinità del calcio quel giorno non avevano ancora finito di giocare al gatto con il topo con Pinilla, con quelle squadre e con quella città.

Pinilla, forse ancora scosso, sbagliò il suo rigore nella lotteria che premiò il Brasile.

Perché ho più volte detto che le divinità del calcio quel giorno seppero tessere una trama diabolica? Perché se permisero al Brasile di passare, forse lo fecero solo per far subire, sempre in quello stadio, a Belo Horizonte dal bel nome, la caporetto per 1-7 altrimenti nota come Mineiraço.

Dopo quel 28 Giugno del 2014, Mauricio andò a giocare, a segnare, a infortunarsi, anche a Genova, sponda Genoa, a Bergamo, ancora Genoa, ancora Universidad de Chile e infine Coquimbo Unido.

Il Coquimbo Unido è una squadra che ha origini lontane, molto gallesi con quarti di sangue inglese.  El club Pirata, lo chiamanano così.

È conosciuto così questo club, come El Pirata.

Porto sicuro e buen retiro per uno come Mauricio che pirata lo è stato davvero: dell’area di rigore e dei mari tempestosi della vita.

Ovunque divenne subito un idolo dei tifosi, che ne apprezzavano l’impegno, le corse sotto la curva dopo i gol e, naturalmente, le realizzazioni acrobatiche. Il ragazzo era maturato, forse troppo tardi per lasciare un segno nel calcio, ma ancora abbastanza presto per essere un buon padre e un buon marito.

Come tanti non ha saputo gestire al meglio un precoce successo, come tanti ha buttato al vento tante opportunità, come tanti ha lavorato duro per sporcare quanto di buono si diceva su di lui, andando a nutrire il lupo cattivo che alberga in ognuno di noi, pennellando il dipinto maledetto che noi stessi tratteggiamo nella nostra anima, ma…

Maledetto, ma non troppo verrebbe da dire, perché se tanto ha sperperato alla fine è riuscito, a differenza di altri, a non entrare nell’ultima bolgia del cerchio dei maledetti, dalla quale si esce solo perdendo la vita o l’anima.

Spesso entrambe.

Pinilla non ha perso nulla di tutto ciò, se non la mancata dimostrazione di un’ipotesi che sembrava condurre a un teorema di quelli importanti, ma sono cose che capitano, e che si possono perdonare, specie se riesci a far sorridere la gente mentre ti ricorda, gambe all’aria e schiena alla porta, tentare il colpo più difficile e spettacolare del calcio: la rovesciata.

O la chilena, in onore di Ramón Unzaga che la mostrò alla Copa America del 1920. A proposito di Copa America, Pinilla, sia pure da rincalzo, è riuscito a vincerne ben due, nel 2015 e 2016.

Sudamericano sino al midollo, in un’ultima straordinaria inversione dal normale, dalla consuetudine, con un’ultima chilena, Mauricio ha fatto scrivere la didascalia del tatuaggio in…

Inglese.

One Centimeter From Glory.