“Pensavo davvero che il più fosse fatto.

Che i momenti duri, e ce ne sono stati tanti, fossero ormai alle spalle.

Che ora sarebbe stato tutto in discesa.

Pensavo davvero che il destino me lo dovesse dopo tutto quello che avevo dovuto sopportare il mio primo anno a Glasgow.

Quando mi arrivò la chiamata del Celtic rimasi parecchio stupito.

Sapevo che la mia prestazione a Sofia contro l’Inghilterra con la mia Nazionale di poche settimane prima non era passata inosservata.

Quel giorno giocai un ottima partita e speravo che qualche club inglese, anche se magari non di primissima fascia, si fosse segnato il mio nome.

In fondo, anche se dovevo ancora compiere 20 anni, le mie caratteristiche di centrocampista a tutto campo, che sa impostare ma che copre, lotta e sa sacrificarsi, sapevo che erano più adatte ad un campionato come quello inglese che a quello spagnolo o italiano, dove magari la tecnica era la cosa che interessava maggiormente.

Invece fu il Celtic che si fece avanti.

Seppi in seguito che mi seguivano già da tempo perché Josef Venglos, il ceco che al Celtic aveva allenato qualche anno prima, aveva fatto il mio nome in società.

Quando arrivai al Celtic pensai subito di avere fatto il più grosso errore della mia vita.

Non parlavo una parola di inglese, le abitudini di vita erano così diverse da quelle in cui ero cresciuto.

La prima stagione fu un inferno.

Facevo fatica a capire cosa voleva l’allenatore da me, non riuscivo a comunicare con i compagni.

Finito l’allenamento c’erano quelli che avevano famiglia o fidanzate che se ne tornavano a casa e gli altri, gli scapoli, che andavano in giro per pub e per locali.

Ho provato qualche volta ad andare con loro, ma non capivo una sola parola e mi sentivo completamente fuori luogo.

Il Celtic mi aveva organizzato un corso d’inglese ma la sede del corso è molto lontana dal mio appartamento e ci metto più tempo ad andare di quanto duri il corso.

Così ho lasciato perdere.

In campo le cose non andavano certo meglio.

Non riuscivo a capire cosa volesse da me il Manager, John Barnes, l’ex grande ala sinistra del Liverpool e della Nazionale inglese.
O giocavo troppo avanti, o non mi inserivo abbastanza oppure secondo lui tenevo troppo la palla.

Ad un certo punto mi ha perfino fatto giocare terzino destro !

Ma non ho mollato.

Sapevo che avevo abbastanza qualità per giocare nel Celtic e in quel campionato.

Poi finalmente ho trovato un amico

Si chiama Brian Wilson e ovviamente tifa Celtic.

Un giorno mentre sono in fila per il taxi dopo un allenamento mi vede.

Mi offre un passaggio.

Si accorge che non so una parola di inglese e mi insegna qualche parola mentre mi riporta a casa.

Poi mi dice che lui fa quel tragitto praticamente tutti i giorni e che gli farebbe piacere darmi un passaggio.

In breve Brian diventa in pratica il mio autista e il mio istruttore di inglese.

Brian ha un piccolo furgone e con la moglie va in giro a vendere sandwich e bibite.

Mi dice che dopo un mese con lui a vendere panini avrei imparato la lingua meglio che in un anno di corso.

Gli credo e mi ci butto anima e corpo.

Anche perché è l’unico amico che ho a Glasgow.

“Figliolo, la cosa più difficile di capire quando parla uno scozzese con l’accento di Glasgow è capire quando parla un scozzese con l’accento di Glasgow e pure ubriaco !” mi ripete tutte le sere il mio amico Brian.

E a questi ultimi di panini ne ho serviti molti !

Così non ho mollato e pian piano Glasgow è diventata meno spaventosa.

Ad aprile vincemmo la Coppa di Lega in finale contro l’Aberdeen.

Uno zuccherino o poco più per il fine palato dei tifosi del Celtic … e soprattutto per la loro fame di successi che da parecchie stagioni si faceva attendere.

E intanto il mio scozzese migliorava grazie a Brian e con quello anche le mie prestazioni in campo.

Poi nell’estate successiva c’è stata la svolta.

E’ arrivato un nuovo manager, un nord irlandese che da calciatore aveva vinto due Coppe dei Campioni con il Nottingham Forest di Brian Clough.

Il suo nome è Martin O’Neill.

Con lui è cambiato tutto.

E’ cambiato l’approccio, il metodo di allenamento e perfino il sistema di gioco.

Il 3-5-2 con il quale sono cresciuto io in Bulgaria a quei tempi nelle isole britanniche era ancora poco utilizzato.

Con O’Neill diventò il nostro sistema di gioco.

Martin mi mise esattamente al centro di questo schema e al mio fianco due centrocampisti di corsa, di intelligenza e di cuore come Lennon e Lambert a proteggermi, supportarmi e a rifornirmi di palloni.

I risultati si sono visti subito ma nessuno poteva immaginare che al termine di quella stagione avremmo vinto tutto quello che c’era da vincere in Scozia: Campionato, Coppa di Scozia e Coppa di Lega.

La squadra era davvero forte.

Ma due giocatori spiccavano su tutti noi: Henrik Larsson, il nostro attaccante svedese con le treccine, capace di inventare gol dal nulla e capace soprattutto con le sue qualità di far sembrare tutti noi molto più bravi.

Poi c’era lui.

Quando sono arrivato al Celtic io aveva già 34 anni ma ogni tanto mi chiedevo (e chiedevo a Martin) come potessi giocare io tra i titolari e un genio come lui starsene in panchina …

Sto parlando di Lubomir Moravcik, il centrocampista più forte con cui io abbia mai giocato o visto in azione su un campo di calcio.

Non sono ancora riuscito a capire (come del resto tutti i miei compagni) se fosse destro o mancino !

Calciare con un piede o con l’altro per lui era la stessa identica cosa !

Alla fine della prima stagione di Martin O’Neill sono stato giudicato il miglior giovane del campionato scozzese. Era la prima volta in assoluto che il premio finiva ad un calciatore straniero.

Da sempre però vincere in Scozia veniva visto a sud del Vallo di Adriano come una cosa di poco conto.

“In fondo ci sono solo due squadre in Scozia: o vince l’una o vince l’altra” questo e quello che sentivo dire regolarmente o che leggevo sui giornali inglesi.

Ma quando due anni dopo arrivammo in finale di Europa League sono certo che parecchi “opinionisti” si saranno andati a nascondere !

Fu una cavalcata fantastica dove eliminammo squadroni come il Celta Vigo, il Liverpool e il Boavista prima di cadere a cinque minuti dalla fine dei supplementari contro il Porto nella finale.

Ma eravamo finalmente tornati nella mappa del calcio europeo.

Il Celtic però mi aveva dato tutto quello che poteva darmi e io avevo fatto lo stesso per loro.

Era arrivato il momento di nuove sfide.

Quando Martin O’Neill mi chiese di andare con lui all’Aston Villa non ci pensai due volte.

Ci vollero 8 milioni di sterline per convincere il nuovo manager Gordon Strachan e la dirigenza del Celtic a lasciarmi andare ma finalmente avevo la possibilità di “provarmi” in quello che stava rapidamente diventando il campionato più competitivo e spettacolare del mondo.

Anche qui il primo anno non fu facile.

In fondo non avevano tutti i torti parlando del calcio scozzese.

Lassù facevi 10-12 partite davvero “tirate” in un campionato. In molte altre potevi portare a casa i tre punti anche giocando al 70/80% del tuo potenziale … e poi quasi sempre ci pensava Henrik Larsson !

In Inghilterra ogni partita era una finale.

Non importa contro chi. Era dura dappertutto.

Ma ho capito presto che non potevi mai permetterti di non essere al massimo.

Nella stagione 2008-2009 giocai forse la migliore stagione della mia carriera.

E in quell’estate arrivarono due grandissime soddisfazioni personali: la prima fu che i tifosi mi avevano eletto “giocatore dell’anno” e la seconda, per me forse ancora più importante, che sarei diventato il nuovo capitano del Club.

Firmai un contratto per altre quattro stagioni e anche l’arrivo di Gerard Houllier al posto del mio mentore O’Neill non cambiò di una virgola le cose.

Certo, non mi sarei mai aspettato di vedere andar via Martin.

Pochi mesi prima ci aveva portato addirittura in finale di Coppa di Lega (che perdemmo contro il Manchester United) ma nessuno avrebbe immaginato che se ne sarebbe andato ad una manciata di giorni dall’inizio della nuova stagione.

Le cose sono andate avanti.

Non facevamo sfracelli ma il nostro dignitoso campionato lo facevamo sempre.

Poi arrivò quel maledetto 24 marzo.

Giochiamo ad Highbury contro l’Arsenal.

Nell’intervallo il nostro nuovo allenatore, Alex Mc Leish, mi chiede “Cosa succede Stan ? Sei sempre in ritardo su ogni pallone !”

“Non lo so Boss” gli rispondo io. “So solo che c’è qualcosa che non va. Non riesco proprio a scattare, a reagire … mi sembra di andare al rallentatore” provo a spiegargli

“Stan, se non stai bene ti tolgo. Inutile stare in campo in queste condizioni” mi dice con tono comprensivo il Boss.

Ma a questo punto si leva il coro dei miei compagni di squadra. “No Stan ! Non puoi uscire adesso ! Abbiamo bisogno di te, sei il nostro capitano !”

La loro reazione quasi mi commuove.

“Ok ragazzi, torniamo in campo e vediamo di raddrizzare questa partita” dico loro in uno slancio di orgoglio.

… Ma non ci credo nemmeno io.

Le cose vanno un pochino meglio nel secondo tempo … ma non sono certo ai miei livelli soliti.

L’Arsenal ci fa a pezzetti, battendoci per 3 reti a 0.

Ma quello veramente a pezzi a fine partita sono io.

Non sto letteralmente in piedi dalla stanchezza, sento brividi in tutto il corpo.

“Proprio una bella influenza” penso mentre me ne torno a casa con il bus della squadra.

Solo che la febbre non passa.

Io mi sento sempre di più uno straccio.

Mia moglie e il Club insistono perché faccia degli esami più approfonditi.

Ma non ne vale la pena !” dico loro “Una settimana di riposo e torno più in forma di prima”.

Gli esami più approfonditi sono al cuore. Solo la settimana prima c’è stata la drammatica scena, in diretta tv, di Fabrice Muamba che collassa in campo. Il cuore gli si ferma per 78 minuti. Per poi riprendere la sua corsa e ridare la vita a Muamba.

Lo shock è ancora talmente grande che è su questo aspetto che si concentrano medici e staff.

Il mio cuore però è perfetto.

Ma c’è qualcosa che non va nel mio sangue.

Mi vengono rifatte le analisi perché nessuno può credere alla prima, devastante sentenza.

Ma non cambia nulla neppure con le nuove analisi.

Ho la leucemia.

Io non so neppure bene cosa sia.

So solo che è una cosa seria, che in ballo c’è la mia vita e la mia carriera.

Non posso certo mollare adesso.

Non l’ho mai fatto.

Ne in Bulgaria da bambino quando in famiglia non c’erano soldi e neppure quando sono arrivato a Glasgow e per mesi mi sono sentito solo come un cane randagio.

E’ ora di lottare e non mi tirerò indietro.

Si, perché non mi basta sconfiggere la malattia.

Io voglio tornare su un campo di calcio.

Passano sei lunghi mesi nei quali “Stan” trova dentro di se  le risorse per combattere una malattia potenzialmente letale quando arriva il primo importante responso dei medici.

Stilyian, dobbiamo continuare a combattere. Abbiamo fatto progressi ma c’è ancora tanto da fare.

Una cosa è certa purtroppo: il calcio professionistico ormai appartiene al passato”.

Per Petrov è una botta tremenda.

Difficilissima da assorbire.

Ma ci sono Pauline, sua moglie,  Stiliyan Jr. e Christian che vengono prima di tutto il resto.

Sono mesi terribili.

Le difese immunitarie di Petrov sono ridotte al minimo.

Questo vuol dire che non ci possono contatti tra lui e il resto del mondo, famiglia compresa.

Può vedere i figli solo attraverso i vetri della sua stanza.

Stiliyan jr. in particolare farà fatica ad accettare e a capire quello che sta succedendo a suo padre.

Dovrà andare in terapia per riuscire ad affrontare la cosa.

I mesi passano.

Petrov reagisce alle cure.

Il dottor Lynch, il medico che lo ha in cura, gli spiega che occorre mettere su peso per affrontare meglio il tutto.

Petrov lo prende in parola.

Nella prima settimana di cure riesce a mettere su 8 kg !

“ Ingrassare 2-3 kg lo avevo già visto fare da altri pazienti ma 8 kg mai prima d’ora !” gli dirà stupito il dottore Lynch.

Dopo un anno e mezzo di cure e di isolamento, “Stan” Petrov sarà 45 chilogrammi sovrappeso.

Ma la malattia è regredita.

Stiliyan Petrov è guarito

Il calcio professionistico non è più una priorità.

Ora c’è la vita, c’è la sua meravigliosa famiglia, c’è la sua fondazione e c’è l’amore incondizionato che i tifosi del Celtic e dell’Aston Villa non hanno mai smesso di trasmettergli.

E a 40 anni c’è una gran bella fetta di vita che aspetta di essere vissuta.

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Martin O’Neill su Petrov

“Quando l’ultimo giorno prima della chiusura del mercato lo portai all’Aston Villa ero felicissimo. Sapevo quello che avrebbe dato alla squadra in quanto a professionalità, qualità e rendimento. Quello che non mi aspettavo è che nelle prime settimane avesse così tanta nostalgia di Glasgow ! Cavoli …  Stilyian è BULGARO !!!!

Stan sulla leucemia. “Io non so come sia l’inferno. Ma ammalarsi di leucemia è sicuramente peggio”.

Racconta Malky Mackay, ex-compagno di squadra di Stan al Celtic, di quanto difficili siano stati i primi mesi del bulgaro al Celtic.

“Dopo 6 mesi Petrov non parlava ancora la lingua e non sapeva assolutamente districarsi nella vita di tutti i giorni. I suoi vicini di casa un giorno lo incontrarono e quando gli chiesero come stesse Stiliyan scoppiò a piangere. Lo accompagnarono in casa e mentre gli facevano compagnia si accorsero che non aveva pagato una sola bolletta di luce o gas che da li a pochi giorni gli avrebbero staccato tutto”.

“Durante la partita con l’Arsenal mi accorgevo che i miei muscoli non reagivano come facevano di solito e capivo che c’era qualcosa che non andava … non certo però che da lì ad una settimana la mia vita sarebbe cambiata per sempre”.

Dopo sei mesi il medico che mi aveva in cura, il Professor David Lynch, mi disse che non avrei più giocato a calcio. Piansi per tre ore ininterrottamente. Lo so che stavo lottando per la mia vita stessa … ma immaginarla senza il calcio in quei momenti mi era assolutamente impossibile” ricorda Petrov.

Nel settembre del 2013 il Celtic Glasgow organizza in onore di Stilyian una amichevole, un “testimonial match” come dicono da quelle parti.

Al Parkhead accorrono in 60.000 a salutare, a supportare e a ringraziare Petrov.

“Per un anno e mezzo ho visto si e no 10 persone diverse, dottori e infermiere compresi. E ora sono qui, davanti a 60.000 persone che invocano il mio nome” sarà il commosso commento di Stan quel giorno.

Poco più di due anni fa Stiliyan Petrov è tornato a giocare una finale di Coppa.

La Central Warwickshire Over-35 Premier Division One CUP FINAL con I Wychall Wanderers, il team in cui ha giocato l’intera stagione.

“Ero emozionato come un bambino !” ammette Stan “E pensare che ho accorciato una vacanza a Dubai con la famiglia per poter giocare quella finale ! … mia moglie non era esattamente entusiasta …”

“Forse la cosa peggiore di tutto quel periodo fu quello di non poter abbracciare mia moglie e i miei figli.

Avevo le difese immunitarie azzerate e ogni contatto con loro avrebbe potuto essermi fatale.

Vedere i miei figli attraverso un vetro e non poterli accarezzare è stata la cosa più dura di tutte” ricorda Stan dei primi mesi della malattia.

E infine la dichiarazione più bella e coraggiosa.

“Devo la mia vita a mia moglie. C’è stato un momento durante la chemioterapia dove ho detto basta. Non ce la facevo più a sopportare il dolore.

“Basta” le dissi. “Vada come vada io non ce la faccio più ad affrontare tanta sofferenza”.

“No. Hai ancora una vita da vivere e io e i tuoi figli non possiamo permetterti di smettere di lottare. Ce la farai Stilyian”.

Aveva ragione lei.

Quella su Petrov è una delle 27 biografie raccolte in http://www.urbone.eu/obchod/mavericks-cult-heroes-del-calcio-britannico