“Ho fatto semplicemente quello che dovevo fare.

Quello che un capitano deve fare in queste circostanze. Prendersi cura dei suoi compagni e pensare alla squadra.

Ho corso più forte che potevo per raccogliere io stesso quel pallone  che aveva appena finito la sua corsa nella nostra porta.

Il gol de vantaggio del Brasile.

Ho preso quel pallone in mano e me lo sono messo sottobraccio.

Poi ho cominciato a camminare.

Piano, senza fretta.

Più o meno come faccio con la mia adorata Catalina per le vie del centro di Montevideo.

Solo che lì eravamo al Maracanà di Rio de Janeiro, nell’ultima partita di quella edizione del Campionato del Mondo.

C’erano duecentocinquemila brasiliani festanti, che dopo urla incessanti di incitamento ora urlavano ebbri di gioia dopo quel gol che per loro significava il primo titolo mondiale della storia.

Non riuscivo a sentire niente altro che quel boato ininterrotto e festante.

Non sentivo neanche le voci dei miei compagni di squadra che con ogni probabilità mi stavano chiedendo cosa stessi facendo.

Ci ho messo più un minuto a raggiungere il centro del campo.

Le urla dei brasiliani non erano ancora calate di un solo decibel.

Io, in realtà, volevo solo delle spiegazioni.

Ero certo al mille per mille che poco prima che Friaça segnasse il loro gol uno dei guardalinee aveva alzato la sua bandierina per segnalare un fuorigioco, riabbassandola velocemente un secondo dopo che la palla era entrata in rete.

Posso capirlo poveretto !

Probabilmente se avesse fatto annullare quel gol lo avrebbero ucciso !

Ma io PRETENDEVO delle spiegazioni.

Come deve fare un capitano.

Andai dall’arbitro, il sig. Reader. “Orsay” dissi a lui e ai giocatori brasiliani che si erano avvicinati incuriositi

Nessuno riusciva a capire.

“Orsay” era come in Uruguay chiamavamo il fuorigioco, storpiandolo da “Offside”.

Chiesi un interprete.

A quel punto il rumore del Maracanà calò d’intensità.

Fino a diventare silenzio.

“Cosa sta accadendo ? Perché il gioco non riprende ?” si chiedevano i duecentocinquemila sugli spalti.

E quell’atmosfera festosa diventò in pochi secondo un brusio sommesso.

Improvvisamente mi accorsi che avevo raggiunto il mio scopo.

Raffreddare gli animi, spegnere quell’entusiasmo incontenibile e contagioso che dalle tribune si sarebbe riversato sul campo.

Sulle ali di quell’entusiasmo i brasiliani ci avrebbero distrutti, annichiliti e probabilmente seppelliti di gol.

Adesso invece era cambiato tutto.

“Non guardate in alto” avevo detto ai miei compagni appena prima di scendere in campo “quelli là fuori non esistono”.

In quel preciso momento sentivo che i miei compagni lo avevano capito.

Ora non restava che dimostrarlo”.

L’Uruguay, con un gol di Schiaffino ed uno di Ghiggia ribaltò il risultato.

Condannando il Brasile ad una sconfitta che fece precipitare un intero paese nella tristezza e nello sconforto.

Si è detto e scritto tanto su quel giorno di luglio del 1950.

Cose ingigantite negli anni e cose neppure troppo vere.

Come il fatto che l’Uruguay avrebbe dovuto essere sconfitto con estrema facilità dal Brasile e che quel risultato fu una autentica beffa.

Niente di più falso.

Un paio di mesi prima di quella finale si giocò la “Copa Rio Branco”, un trofeo che prevedeva la sfida proprio tra Brasile e Uruguay. Istituito nel 1931, l’anno seguente la vittoria dell’Uruguay nel primo campionato mondiale di calcio della storia, all’inizio era una partita “secca” che assegnava il trofeo.

Dal 1940 invece si passò alla formula delle 2 partite, entrambe nella stessa nazione ad anni alternati.

In quel maggio del 1950 toccò al Brasile ospitare la nazionale Celeste.

Nel primo match si giocò a San Paolo e l’Uruguay vinse per 4 reti a 3. Nel secondo, giocato a Rio de Janeiro, fu il Brasile ad imporsi per 3 reti a 2. A questo punto, il 18 maggio, si giocò “la bella” che finì con la vittoria del Brasile per una rete a zero.

Tre partite tiratissime e dove si disse che l’arbitraggio a favore dei padroni di casa fu spesso decisivo.

No, non c’era tutto quel divario che si raccontava tra Brasile e Uruguay. Non c’era affatto e i primi a saperlo erano i calciatori brasiliani che quel giorno non si sentirono al sicuro neppure dopo il gol del vantaggio.

Sapevano che l’Uruguay non avrebbe mai mollato. Sapevano che in quei quaranta minuti abbondanti da giocare ogni singolo pallone sarebbe stato conteso, lottato e sofferto.

E poi ci si mise anche il “Maracanà” e i suoi duecentomila.

Che non vollero credere ai loro occhi. Che la festa pronta da settimane, da mesi … forse da anni … non ci sarebbe stata neppure questa volta.

E nel momento in cui Ghiggia segnò il secondo gol, con ancora più di dieci minuti da giocare, il Maracanà ABBANDONO’ i suoi ragazzi. Un silenzio infinito e assordante. Il silenzio di un popolo intero che si era visto strappare il suo sogno … e ormai si era svegliato da quel sogno e sentiva che non c’era più niente da fare.

Obdulio Varela lo aveva detto chiaramente dirigenti della Federazione urugaiana quando pochi minuti prima del match annunciarono alla squadra che “Ragazzi, avete fatto già tanto ad arrivare fin qua e per questo vi ringraziamo. Oggi perdere con non più di quattro reti di scarto sarà comunque un grande risultato e una sconfitta dignitosa”.

“Come ?” rispose un arrabbiatissimo Varela “Secondo voi perdere per quattro gol sarebbe DIGNITOSO ?” rincarò la dose in quei momenti il capitano. “Dignitoso sarà solo se quella Coppa la vinceremo”.

Avrà ragione lui, “El Negro Jefe”.

Obdulio Jacinto Varela nasce nel barrio “La Teja” di Montevideo il 20 settembre del 1917.

La sua infanzia non è differente da quella della maggioranza dei suoi coetanei dell’epoca: miseria e pallone.

La madre Juana faceva la lavandaia, che era più o meno il massimo che una donna di colore potesse ambire all’epoca. Il padre, a lui praticamente sconosciuto, preferì darsi “alla macchia” piuttosto che assumersi le classiche responsabilità famigliari.

A 8 anni Obdulio (che nel suo barrio chiamavano tutti con il suo secondo nome, Jacinto) vendeva giornali davanti agli hotel e agli angoli delle strade.

Ogni pesos guadagnato era fondamentale per mettere un po’ di cibo in tavola, per qualche vestito e magari qualche libro per provare a frequentare più o meno regolarmente la scuola.

Quando aveva finito con i giornali c’era sempre qualche paio di scarpe di uomini d’affari e imprenditori che giravano per Montevideo.

Il resto del tempo era impegnato dal pallone, l’unica vera gioia in una vita tutt’altro che facile.

Con la “globa” (così veniva spesso chiamata la palla all’epoca in Uruguay) Obdulio però ci sapeva fare.

E nel suo caso non era semplice bravura tecnica, forza fisica o visione di gioco.

Era qualcosa di più.

Fin da allora, nelle partitelle nei potreros del suo quartiere o nei vicoli di Montevideo, la sua personalità, il suo carattere mai domo e la sua autorevolezza lo facevano spiccare in ogni contesto.

“El Negro Jefe” così lo chiamavano fin da ragazzo.

Uno nato per comandare.

Non ha mai avuto bisogno di molte parole.

Anzi, spesso bastava un’occhiata.

“In un campo di calcio devi essere pronto a uccidere o a morire” ripeteva spesso quando gli chiedevano dove trovava tanta tenacia e tanto coraggio.

E d’altronde non poteva permettersi indecisioni o dubbi: Obdulio Varela voleva arrivare a giocare in Primera e poi nella Nazionale del suo Paese.

“Avevo 13 anni quando l’Uruguay vinse il primo campionato del Mondo” amava raccontare Varela.

“Vidi i festeggiamenti, vidi un popolo felice che accoglieva i suoi eroi. Avevo già in testa di voler diventare un calciatore ma da quel giorno non ebbi più un solo dubbio al mondo”.

Gli inizi nel Deportivo Juventud prima di passare al Wanderers e finalmente al Penarol, una delle grandi del calcio uruguagio nel 1943.

Ma non aveva avuto bisogno di giocare nel Penarol per arrivare in Nazionale.

In Nazionale ci giocava già da 4 anni, dal suo esordio con il Cile nel 1939.

Nel 1942, quando l’Uruguay trionfò nel Campionato Sudamericano Obdulio Varela fu eletto miglior calciatore del torneo.

Nel Penarol rimase fino al termine della sua carriera, nel 1955, dove vinse 6 campionati.

Obdulio Jacinto Varela morì il 2 agosto del 1996, pochi mesi dopo la sua amata moglie Catalina Keppel, sposata nel 1946.

L’Uruguay, terra di calcio e di grandi calciatori, riconoscerà in eterno la grandezza di questo giocatore.

Dopo di lui ne arriveranno tanti di campioni che regaleranno gioie e trionfi a questa piccola nazione innamorata del calcio.

Ma nessuno avrà mai il carisma, la personalità e lo spessore di Obdulio Jacinto Muiños Varela, “El Negro Jefe”.

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Come racconterà da par suo il grande Eduardo Galeano in “Splendori e miserie del gioco del calcio” Obdulio Varela passò la notte del trionfo nel Campionato del Mondo in giro per i bar di Rio de Janeiro, bevendo birra, abbracciato ai brasiliani sconfitti e inconsolabili.

“Quella sera mi resi conto della portata di quello che avevamo fatto. Non potei non provare affetto per quella gente alla quale avevamo rubato un sogno così grande” ricorderà negli anni Varela.

“Non c’era un solo grammo di odio nei nostri confronti, non c’era rabbia verso coloro che avevano strappato dalle mani un trionfo atteso da sempre. C’era solo la più cupa disperazione. E io mi sentivo responsabile di questo.”

Di quella notte c’è anche la versione “diretta” che racconterà anni dopo lo stesso Varela.

“Decisi di uscire e di farmi un giro per Rio de Janeiro. Entro in un bar. Il proprietario del bar mi si avvicina insieme ad un tizio grande e grosso che piangeva. Gli ha detto: ‘Lo sa chi è questo qui? È Obdulio’. Io ho pensato che il tizio mi avrebbe ammazzato. Ma mi ha guardato, mi ha abbracciato e ha continuato a piangere. Subito dopo mi ha detto: ‘Obdulio, accetta di venire a bere un bicchiere con noi? Vogliamo solo dimenticare, capisci?’ Come potevo dirgli di no? Abbiamo passato tutta la notte a bere, passando da un bar all’altro»

Al ritorno in Patria all’aeroporto di Montevideo c’era un Paese intero ad attendere i suoi eroi. Era esattamente quello che Varela aveva sempre sognato da quando, tredicenne, vide trionfare i suoi connazionali nel primo campionato mondiale di calcio della storia.

Invece Obdulio Varela si mise un impermeabile, si rialzò il bavero e si calò un cappello fino al naso passando in mezzo a quella globale euforia completamente inosservato.

Da ragazzino Obdulio Varela non era particolarmente dotato. Aveva una buona tecnica di base ma niente che colpisse particolarmente gli osservatori. Non era particolarmente veloce o forte nei contrasti ma aldilà di uno spiccato senso tattico aveva essenzialmente una dote di quelle che non si imparano: la personalità. In campo guidava i suoi compagni, correggeva i loro spostamenti, li richiamava all’ordine e alla concentrazione.

E senza mai gridare o ricorrere a gesti plateali.

“Era sufficiente che Obdulio ti desse una delle sue occhiate per capire che era ora di darsi una svegliata !” ricorda il grande Alberto Schiaffino, suo compagno di squadra nell’Uruguay e destinato a diventare uno dei più grandi centrocampisti della storia del calcio.

Che Obdulio Jacinto Varela fosse un calciatore e soprattutto un uomo di grande spessore era un fatto riconosciuto da tutti, compagni di squadra e avversari.

La sua onestà e la sua correttezza erano proverbiali.

Durante un incontro con il suo Peñarol un avversario si rese protagonista di una brutale entrata nei confronti di un suo compagno di squadra. Mentre tutti si aspettavano l’espulsione di questo giocatore l’arbitro si limitò invece a fischiare un semplice calcio di punizione.

Varela,capitano del Peñarol, prese il pallone in mano, andò dall’arbitro dicendogli, sempre con molto garbo, che “se un mio compagno di squadra dovesse compiere un atto così brutale e violento sarò io stesso a venirle a chiedere di espellere quel mio compagno perché nella mia squadra non potrei tollerare un comportamento del genere”.

Molto controverso invece il suo rapporto con stampa e televisione.

Obdulio Varela evitava interviste, soprattutto quelle con i giornalisti.

“Dei giornalisti non mi fido. Raccontano quello che vogliono, non la verità. Le uniche due cose vere di un giornale sono la data e il prezzo” affermerà più volte Varela durante la sua carriera.

La frase detta da Obdulio Varela ai compagni all’entrata del Maracanà in quel 16 luglio del 1950 è ormai entrata nella leggenda.

Tanto vale ricordarla per intero.

Salgan tranquilos, no miren para arriba. Nunca miren a la tribuna. Los de afuera son de palo. El partido se juega abajo y se gana con los huevos en la punta de los botines”.

Quando il Signor Harris, l’arbitro inglese dell’incontro, fischiò la fine tutto piombò nel silenzio più assoluto.

E nel caos.

Ricorderà Jules Rimet, l’inventore della Coppa del Mondo, incaricato di consegnare il trofeo nelle mani del capitano della squadra vincente che “Tutto era previsto e organizzato. Tranne la vittoria dell’Uruguay. Andai negli spogliatoi poco prima della fine della partita. Il risultato era ancora 1 a 1. Ripassai il mio discorso. Quando rientrai in campo c’era un silenzio irreale. Passerella, inno nazionale, discorso … niente di tutto questo. Mi ritrovai con la Coppa del Mondo in mano in mezzo alla confusione più totale, senza sapere assolutamente cosa fare. Finalmente incrociai Varela, il capitano dell’Uruguay. Gli consegnai la Coppa, gli strinsi la mano e me ne andai, senza riuscire a dirgli neppure una parola per congratularmi con lui per quel trionfo”.

Infine il ricordo di Varela, al rientro negli spogliatoi.

“Mentre i miei compagni festeggiavano, bevendo Champagne dalla Coppa, io rimasi cinque minuti seduto, a guardarmi i lacci delle scarpe. In quei cinque minuti rividi tutta la partita. Cinque minuti che durarono come tutti i novanta di gioco”.