Uno dei termini “calcistici” diventati più famosi negli ultimi anni è quello della “Garra Charrua” ovvero di quella caratteristica che ha contraddistinto e continua contraddistinguere i calciatori di un piccolo-grande Paese dell’America Latina: l’Uruguay.

Detto che i “Charrùa” erano un popolo di indios precolombiani che si erano stabiliti sulle sponde del Rio della Plata, il termine pare che fu coniato nel periodo d’oro del calcio uruguaiano, e cioè negli anni ’20-30 periodo in cui la “celeste” faceva incetta di vittorie grazie anche ad una grinta e ad una forza di volontà estreme oltre che alla classe dei suoi calciatori.

Sicuramente nel 1950, con il famoso “Maracanazo”, la vittoria dell’Uruguay contro il Brasile nell’ultima partita di quel mondiale che consegnò il titolo a Schiaffino e compagni diede un’altra spinta emotiva enorme a questa capacità tutta di quel popolo di “sovvertire l’impossibile” che è un po’ la caratteristica di base di questo termine.

Obdulio Varela, capitano e leader di quel meraviglioso squadrone, ne fu un esempio rimasto nella storia.

La flemma con cui riportò il pallone a centrocampo dopo il gol del vantaggio brasiliano che servì a spegnere gli entusiasmi dei tifosi brasiliani che si sentivano già campioni del mondo e le sue doti di condottiero nel finale di quella partita contribuirono non poco ad alimentare questa convinzione.

Ma ci fu un episodio, molto meno conosciuto, che per molti fu determinante nel consacrare l’Uruguay e i suoi calciatori come qualcosa davvero di speciale a livello di coraggio indomito e capacità di superare le avversità.

Fu durante il Mondiale in Cile nel 1962, ricordati come i più violenti della storia di questa competizione.

Durante l’incontro tra la “Celeste” e l’Unione Sovietica il centrocampista uruguaiano Eliseo Alvarez ricevette un duro colpo che gli provocò, si scoprì in seguito, la frattura del perone.

Nonostante il dolore e l’evidente disagio Alvarez si rifiutò in tutti i modi di uscire dal campo per non lasciare i compagni in inferiorità numerica in un periodo storico dove non erano ancora ammesse le sostituzioni.

Sacrificio che risultò purtroppo inutile per Alvarez e compagni visto che l’URSS riuscì a segnare il gol della vittoria ad un minuto dalla fine con Valentin Ivanov.

Racconterà in seguito la figlia di Eliseo, Analia Edith, che per lo sforzo sostenuto durante il match e il ritardo nelle cure il padre rischiò addirittura di vedersi amputata la gamba.