Tra Maradona e Roberto Carlos, un bomber che ha giocato con Ancelotti e Gene Gnocchi

Dall’archivio dei miei pezzi per la Gazzetta di Parma eccone uno che aveva risvegliato tanti ricordi e nostalgie.  Andrea Talignani è un  nome che agli appassionati di calcio italiano, europeo e mondiale quali sono i lettori di questo blog dirà certamente poco.  Ma se le vicende di Don Camillo e Peppone  grazie ai libri di Guareschi e ai film che ne sono stati tratti con Fernandel e Gino Cervi,  hanno avuto risonanza planetaria, allora anche il ”mito” di un bomber di provincia può meritare di essere raccontato in questo contesto. 

Andrea Talignani: Chi ha bazzicato il calcio a Parma tra la fine degli anni ’70 e la metà dei ’90 sa che stiamo parlando di un calciatore ineguagliabile che, sia pur a livelli dilettantistici, ha improntato  come nessun altro un’epoca. Coi suoi gol di rara potenza e la loro eco ha lasciato a bocca aperta avversari e spettatori su tanti campi di provincia, sia nei campionati che nella miriade di tornei estivi giocati e spesso vinti.  Quando, a giugno ’97, Roberto Carlos segnò quel gol quasi contro le leggi della fisica  alla Francia, con una sassata ad aggirare la barriera, a Parma in tanti ammiccarono: <L’ho già visto fare dal Tàlo…>.

Partiamo proprio  dal suo calcio straordinario. Dinamite pura con timer svizzero, vista la precisione.

«Io ho il 38,5 di piede, il baricentro basso e la natura mi ha dotato di grande forza. Le mie bombe si spiegano così. Ho sempre calciato di collo esterno e credo comunque di aver avuto, oltre alla potenza, una grande tecnica. Con quegli ingredienti il segreto vero è che ”vedevo” molto la porta e non avevo paura di sbagliare».

Allora torniamo agli inizi, da San Lazzaro.

«Avevo nove anni quando sono andato a giocare alla Virtus, appena fondata. Tre anni lì, poi una stagione all’Audace, e il passaggio al Parma. Giusto in tempo per vincere due titoli italiani Allievi di serie C. Con me c’erano Ancelotti, Foglia, Bulgarani, gli Osti e tanti altri che poi hanno giocato a lungo».

Un anno di Primavera e poi la cessione alla Langhiranese.

«Brutto colpo, giunto a mia insaputa. Ero stato il capocannoniere del campionato, pensavo di poter puntare più in alto, invece la società privilegiò il discorso economico e mi cedette. Peraltro a Langhirano mi trovai benissimo (99 gol in 4 stagioni ndr)».

La vera gloria arriva poi a Fiorenzuola e Brescello.

«Stagioni e compagni indimenticabili. Da Guarnieri a Petrolini, da Bertolotti a Porcari. Campionati vinti e spareggi persi. Tanti gol, tante gioie, qualche amarezza».

E qualche infortunio.

«Ho portato dieci volte il gesso, sempre alla gamba sinistra. Un crociato, due menischi, cartilagini, tre volte la caviglia e altre cosette».

Già, perché un tempo i marcatori non scherzavano.

«Che duelli con gente come Setti, Dessena, Menozzi, Costantini. Da scintille».

Poi è arrivato il momento di smettere…

<Ero negli amatori di Eia, e una domenica mattina stoppo un pallone, mi guardo intorno e intanto arriva un ragazzo che me lo porta via. L’ho preso come un segno del destino, ho capito che era ora di chiudere. E quel giorno ho smesso».

Oggi hai sessant’anni ma la domanda che ancora in tanti ti fanno è: perché non hai giocato più in alto?

«Il Novara mi cercava a tutti i costi, ma all’appuntamento con i dirigenti che vennero a casa mia non mi feci trovare e mio padre fece l’ambasciata per me: non volevo andare via da casa. Mi sono preso del mammone ma lo ammetto: ho dei genitori speciali e non volevo allontanarmi da loro. Dissi no ad altre due o tre proposte».

C’è qualche giocatore di oggi che ti assomiglia?

«Direi di no, perché adesso corrono tutti… Io correvo ogni tanto. Non voglio sembrare irriverente, fate voi le proporzioni, ma mi ispiravo a Maradona».

Hai mai provato i palloni moderni?

«Non li ho mai toccati perché dopo la partita d’addio con il Felino nel ’97 e una breve esperienza come dirigente sono uscito dal mondo del calcio e ne guardo solo un po’ in tv. Lì li ho visti e allora dico che se dovessi battere una punizione al Bar Lux  potrei spedire la palla fino al Pilastro (c’è  una distanza di circa 12 chilometri… ndr)».

301 gol in 18 stagioni. Se ci aggiungessimo quelli dei tornei a quanto si arriverebbe?

«Considerate che solo a San Prospero, dove si gioca a 5, ne facevo una cinquantina ogni anno… Di sicuro ne metterei insieme più di Pelé».

Che, per la cronaca, ne ha segnati 1281.

Dicono di lui

”Gemello”di Gene Gnocchi

Il tecnico parmigiano Maurizio Masi ha avuto alle sue dipendenze Andrea Talignani per ben cinque stagioni, prima a Fiorenzuola poi a Brescello. «E’ il ”mio” mister» confessa il Tàlo.

E Masi ricambia la stima con grande affetto: «Di Talignani ho dei ricordi bellissimi perché lui si faceva apprezzare non solo per la classe calcistica e i tanti gol, ma anche per le doti umane».

Il tecnico ovviamente non dimentica le imprese del suo pupillo: «Per lui ero un po’ come un secondo padre, avevo imparato a trattarlo come si doveva per tirar fuori il meglio. Non gli ho mai visto segnare un gol brutto, che so, cacciando un porta la respinta di un portiere. Mai.

Lui i gol li creava proprio, se li inventava a distanze siderali dalla porta sfruttando la grande potenza abbinata alla precisione. Quando arrivò a Fiorenzuola voleva giocare trequartista, ma in quella posizione avevo già Ghiorzi, poi diventato Gene Gnocchi, e per fargli spazio feci cedere un altro ottimo attaccante come Amadei. Nei test di forza, resistenza e velocità era sempre il migliore. In campo però correva quando e dove voleva lui.

Al suo arrivo ho detto al resto della squadra: ”Con lui si gioca una volta in dieci e una volta in dodici. Preparatevi”. La squadra lo accolse benissimo e lui è rimasto nella storia sia del Fiorenzuola che del Brescello. Sa che avrebbe potuto far carriera nel calcio che conta e qualche volta con me lo ha ammesso. Gli ho detto: ”Immagina di aver perso un conchino con tre jolly in mano…”».

Pericolo di deragliamento

Attorno alla figura di Talignani negli anni in cui giocava sono state raccontate tante storie. Alcune le accredita e garantisce lui stesso, altre, amplificate nelle concioni delle serate invernali al bar, sono diffuse da amici-agiografi come Rossano Cabrini da Lentigione. I suoi cavalli di battaglia sono la finta di corpo sulla fascia con cui il Tàlo a Colorno aveva fatto cadere a terra non solo il terzino ma anche metà degli spettatori in tribuna, oppure l’usanza del treno Milano-Lecce di fermarsi dietro lo stadio di Fiorenzuola perché il macchinista doveva accertarsi che Talignani non stesse calciando una punizione il cui vortice d’aria avrebbe causato un deragliamento.

Uno dei suoi gol nello spareggio Aosta-Brescello, con un tiro da 40 metri, avrebbe poi fatto alzare e camminare un paralitico.

Fin qui le leggende. Ma il Tàlo ha poi dei fatti da raccontare.

«E’ vero che alla vigilia di Fiorenzuola-Orceana gli amici mi avevano sfidato a segnare contro il “mitico” Renato Villa, il ruvido stopper che poi andò al Bologna. Dopo un quarto d’ora gli avevo già fatto due gol: lui si infortunò nell’azione del secondo e si fece sostituire».

La tenerezza in una foto

Nella foto di Claudio Carra Talignani impugna un paio di scarpette da ragazzino. <Sono le prime che mi regalò mio padre, morto pochi anni fa,  quando a nove anni andai a giocare nella Virtus. In tutto questo tempo le ha sempre conservate lui, con dentro la carta di giornale e ‘’ingrassate’’ come se dovessi ancora usarle. E invece da 50 anni non mi vanno più bene: ma sono un gran bel ricordo».