Qualcuno è arrivato a dire che c’è stato un “prima” e un “dopo” Huracan … un po’ come successe esattamente in quegli anni in Europa con il grande Ajax di Rinus Michels.

Di sicuro c’è che il calcio espresso da questo team nella magica stagione del 1973 ha davvero rappresentato una svolta epocale per il calcio argentino.

Dopo anni e anni di calcio “resultadista” , basato sulla forza fisica, su una difesa aggressiva e su una ferrea disciplina ed organizzazione di gioco che se a livello di Club ottenne importanti risultati, grazie soprattutto all’Estudiantes che ne fece un “arte” di questo modello di gioco diciamo così … pragmatico, non altrettanto si può dire dei risultati della Nazionale biancoceleste che dopo la polemica e mai digerita eliminazione subita dall’Inghilterra nei Mondiali del 1966 fu addirittura incapace di qualificarsi per i mondiali successivi, quelli di Messico 1970.

Il calcio argentino insomma, aveva perso la bellezza.

Quello della “Nuestra”.

Quello della “maquina del River” negli anni ’40 o quello della Nazionale delle “facce sporche” degli anni ’50 per intenderci.

La “Nuestra” non apparteneva più alla tradizione argentina, il famoso “calcio criollo” quello cantato dalla poesia di Eduardo Galeano e che così definiva il passaggio storico in cui gli Argentini si impossessarono del calcio, esprimendo attraverso il loro modo di giocare, individualista e creativo, la repulsione verso il “kick and run” degli inglesi che in Argentina esportarono il calcio ma che pretendevano si giocasse a modo loro.

L’amore incondizionato degli argentini verso l’autentica passione nazionale chiedeva a gran voce una “contro svolta”.

Tutto molto bello nelle intenzioni ma per farlo occorreva innanzitutto un visionario talmente coraggioso da andare completamente contro i dettami dell’epoca, fatti come detto di difese arcigne, tanta corsa, fallo tattico esasperato e, termine blasfemo fino a pochi anni prima, utilizzo di catenaccio e contropiede in puro stile italico.

In questa situazione apparentemente senza via di uscita arriva un uomo, pronto a fare la rivoluzione.

Guarda caso anche lui di Rosario, come il più celebre rivoluzionario argentino della storia.

Si chiama Cesar Luis Menotti e con il suo Huracan fa capire fin dall’inizio che vuole percorrere una strada totalmente diversa.

L’approccio di Menotti è di quelli che spiazzano, che provocano e scuotono le coscienze calcistiche.

“Da quando per giocare bene a calcio bisogna CORRERE ???!!!” è la frase simbolo  del “Flaco” in quel periodo.

Esagerata, estrema forse … ma che comunque ha l’obiettivo, centrato, di minare dalle fondamenta il credo calcistico di allora.

La palla è quella che deve “correre” e lo deve fare passando da giocatore all’altro della stessa squadra, sapendola gestire, accarezzare … coccolare.

Perderla è la vera sofferenza.

Il giocatore deve tornare a sentirsi libero di creare, prendendosi il coraggio di rischiare una “gambeta” o un “cagno”.

Solo così cresce l’autostima, solo così si trasmette positività a tutto il team.

… solo così ci si diverte e soprattutto SI diverte il pubblico.

L’impatto di Menotti è devastante.

Già nel Metropolitano del 1972 l’Huracan si distingue per il suo calcio offensivo e spettacolare e raccoglie un ottimo 3° posto alle spalle di San Lorenzo e Racing Club ma segnando più gol di tutti gli altri teams e piazzando due dei suoi giocatori, Brindisi e Avallay, ai primi due posti della classifica marcatori, con 21 e 17 reti rispettivamente.

Manca però ancora qualcosa.

Manca la scintilla definitiva, quella che faccia diventare l’Huracan la squadra più forte di tutte.

Come “regalo di Natale” poco prima dell’inizio del Nacional del 1973 Cesar Luis Menotti chiede alla dirigenza del Huracan di acquistargli un ventenne praticamente sconosciuto che gioca ala destra in serie C, nel Defensores de Belgrano.

“Vedrete” dice El Flaco ai suoi dirigenti “con lui diventeremo imbattibili”

La cifra è importante ma Menotti lo vuole a tutti i costi e così Renè Orlando Houseman viene acquistato.

Al suo arrivo in sede le reazioni di presidente e dirigenti dell’Huracan sono di due tipi, diametralmente opposte.

A qualcuno scappa da ridere a qualcuno invece verrebbe da piangere pensando a tutti i pesos spesi !

Renè Orlando Houseman è piccolo, praticamente pelle e ossa, capelli lunghi che non vedono un pettine probabilmente da settimane, non rasato e vestito quasi come un senzatetto.

Il tempo di vederlo in campo per capire che, anche stavolta, aveva ragione lui, El Flaco.

Anzi, la frase più ricorrente era diventata “Ma com’è che questo fenomeno non lo aveva ancora comprato nessuno ?”

Con l’arrivo di Houseman i pezzi del puzzle vanno ad incastrarsi alla perfezione.

In porta c’è Roganti, sicuro e affidabile, terzino destro “El Buche” Chabay, agile e bravo in fase di spinta, terzino sinistro lui, “El Lobo” Carrascosa, elegante, preciso e tenace.

In mezzo alla difesa Buglione, tipico stopper di allora, durissimo e forte in marcatura e al suo fianco il grande “Coco” Basile, già un allenatore in campo, leader assoluto della squadra e con una sapienza tattica eccelsa.

Francisco Russo era il classico “5”, il frangiflutti davanti alla linea difensiva. Ordinato, intelligente, umile. Non per niente il suo soprannome era “Fatiga”.

Le due mezzali sono due geni.

Mezzala destra è Miguel Angel Brindisi, uno dei più grandi calciatori argentini di tutti i tempi.

Creativo, tecnico, eccellente negli inserimenti e spietato in zona gol.

Mezzala sinistra “El Ingles” Carlos Babington, mancino di qualità immensa, con una precisione nel passaggio estrema e di grande tecnica individuale.

In attacca a sinistra c’è Omar Larrosa (che farà parte del gruppo che nel 1978 vincerà i Mondiali) giocatore potente, predisposto alla corsa e al sacrificio e bravo a tagliare al centro per andare a concludere.

Centravanti è Roque Avallay, non un fenomeno ma molto intelligente e abile nel creare spazi e impegnare i centrali avversari.

A destra lui, “El Loco” Houseman, 165 centimetri di estro, follia calcistica e talento. Uno dei primi grandi e veri “ribelli” del pallone.

Menotti lo sa e lascia libero lui, Brindisi e Babington di creare, di inventare calcio.

L’Huracan di quel 1973 diventerà l’emblema della rinascita.

Triangolazioni strette, tocchi di prima, dribbling vertiginosi, ragionato possesso palla e poi verticalizzazioni improvvise  … e tanti tantissimi gol.

In un calcio argentino che in quel momento brillava per la rudezza e la solidità delle difese, per il tatticismo esasperato e difensivista segnare 46 gol nelle 16 partite del girone di andata è qualcosa di straordinario

Vittorie sonanti e di larga misura come il 6 a 1 all’esordio contro l’Argentinos Juniors, o un 5 a 0 al Racing Club non erano un eccezione.

Di una partita in particolare si ricordano ancora i vecchi hinchas del “Globo”.

Una vittoria in trasferta per 5 a 0 sul difficilissimo campo del Rosario Central, squadra allora ai vertici del calcio argentino.

Alla fine di quell’incontro accade qualcosa di assai raro nel mondo del calcio e soprattutto a quelle latitudini dove la passione e l’amore per i propri colori spesso acceca completamente l’obiettività sportiva: praticamente tutto il pubblico di fede “Canallas” si alza in piedi a fine partita ad applaudire l’Huracan, riconoscimento estremo per una dimostrazione di calcio di bellezza rara.

Quel periodo magico purtroppo durerà molto poco.

Già al termine del girone d’andata con la Nazionale Argentina che iniziava la sua preparazione per il Mondiale Tedesco del 1974 l’Huracan si vede portar via ben 5 dei suoi profeti; Brindisi, Babington, Carrascosa, Larrosa e ovviamente Houseman.

Un campionato che sembrava già in bacheca torna così prepotentemente in discussione.

A quel punto, privato di 4 dei suoi 5 attaccanti, l’Huracan di Menotti fa di necessità virtù trasformando la difesa nella sua arma migliore, pur continuando ad esprimere un ottimo calcio.

12 soli gol concessi nel girone di ritorno permettono ai ragazzi di Menotti di riportare, dopo ben 45 anni, il titolo al “Tomas Duco’”, la casa del Globo.

La splendida favola dell’Huracan dura davvero un battito d’ali.

Alla fine di quella stagione Cesar Menotti diventa il Selezionatore della Nazionale Argentina, con la non facile responsabilità di vincere il Mondiale che nel 1978 il suo paese avrebbe ospitato.

L’Huracan continua a buoni livelli per un paio di stagioni, raggiungendo una semifinale di Coppa Libertadores nel 1974 e piazzandosi al secondo posto nel Metropolitano del 1975 e del 1976.

Ma il ricordo di quella magica stagione è indelebile soprattutto per quello che ha significato per tutto il calcio argentino, capace con l’Huracan di Menotti e dei suoi ragazzi, di ritrovare il suo spirito, la sua indole e la sua vera natura.

Per chiudere, le parole che uno dei più grandi cantori d’Argentina, “El Negro” Fontanarrosa, dedicò all’Huracan di quella stagione memorabile.

“Tutti dovrebbero rallegrarsi della vittoria dell’Huracan per come è stato conseguito e per il modo con cui è stato ottenuto. Perché ha significato tornare alla più antica origine del calcio in questo Paese: giocare con allegria”.