Non ho visto Diego Armando Maradona. O meglio “non ho visto Diego Armando Maradona”, con le virgolette.

La prima immagine che fa a spallate tra i ricordi è quella del 1994, con il suo urlo in faccia alla telecamera, dopo il gol contro la Grecia nel Mondiale a stelle e strisce. Ero troppo piccolo per capire bene cosa stesse succedendo, ma sufficientemente grande per capire, vista la ciclicità con la quale passava in tv, che si trattava di qualcuno, e qualcosa, fuori dal comune. Di non banale, insomma.

Poi ho un’altra istantanea di Diego Armando Maradona, che va nominato sempre nella sua completezza. Non era più calciatore, era già ct dell’Argentina: notte italiana, nubifragio a Buenos Aires, la voce di Stefano Borghi, il gol dell’amico Martin Palermo, “il tuffo sulla piscina del Monumental”.

Mi rendo conto che è poco, troppo poco. Ma io “non ho visto Diego Armando Maradona”. Ho visto, però, Marco van Basten.

L’altro grande tra i grandi di quegli anni in cui la Serie A incantava il mondo. E l’ho visto nel 2006. Era marzo e un bel giorno il miglior amico di mio fratello, tifoso del Napoli (lui ha visto Maradona senza virgolette), maestro e poeta vegano, mi chiede se ho voglia di andare a San Siro con lui perché “ho due biglietti per l’addio di Demetrio Albertini”.

A settembre avrei fatto 18 anni, ad agosto sarei stato protagonista della prima vacanza con gli amici a Rimini , a luglio sarei diventato campione del mondo e da lì a poco avrei visto Ronaldinho a San Siro. Aveva tutto, ma proprio tutto, per essere, fino a quel momento, l’anno più bello della mia vita. Ronaldinho, sì. Perché il Milan di Demetrio Albertini avrebbe affrontato il Barcellona… di Demetrio Albertini, che emigrò in Spagna, alla corte di Rijkaard, suo ex compagno, per chiudere una splendida carriera in Liga.

Ho sempre amato le partite d’addio, forse perché la mia seconda volta allo stadio è stata nel 1997, quando Milano rese omaggio a Franco Baresi. Una parata di stelle, all star di diverse epoche unite nel fare la cosa più bella del mondo: giocare a calcio. Avevo 9 anni quella notte, da poco compiuti, e quattro cose ricordo più di tutte: le lacrime di Franco, la voce di Jerry Scotti in versione speaker che sbaglia a pronunciare Michel, i fischi allo zio Bergomi, il boato per Marco Van Basten.

Il tutto con Eye of the Tiger a fare da colonna sonora. Un film con un cast stellare. Flash Forward di 9 anni. C’è piena consapevolezza di tutto ciò che ti circonda e sei in piena trance calcistica: ci giochi, ne parli, lo vedi.

Insomma, il calcio lo vivi. A tutte le ore del giorno, tutti i giorni.

Che poi non è che la situazione sia cambiata più di tanto quando di anni ne hai 32…

Prendiamo posto, al primo verde. Ronaldinho parte dalla panchina, insieme al mio pupillo Maxi Lopez seguito sin dai primi gol nel River Plate. La gente è lì per Albertini, ovvio, ma anche per il miglior giocatore del mondo in quegli anni: ci sono striscioni ovunque per quel funambolo illusionista che con la palla tra i piedi sa fare quello che tu vuoi. La bellezza genera amore. E Milano amava già Dinho.

Ci fu un boato incredibile per il 10 blaugrana. Ma anche per un 9 rossonero. Lo stesso 9 di 9 anni prima. Primi 40 minuti con le due squadre, allenate da Capello-Ancelotti e Cruyff-Rijkard, in stile vintage.

Ed è lì, con loro, che succede la magia. Un 17enne prossimo ai 18 non conosce la pazienza e vuole tutto e subito, per questo ci rimane un po’ male se non vede Ronaldinho in campo dal primo.

Ma il passato, saggio, sa come colpire un giovane e incantarlo, facendo passare in secondo piano la genialità del presente che guarda al futuro, come un nonno che racconta aneddoti e ti rapisce la fantasia.

Marco van Basten è in campo dall’inizio, con la sua 9 sulle spalle. Giocherà solo 14 minuti, per non sforzare caviglie fragili, lasciando spazio poi al Tulipano Nero Ruud Gullit. Ma tanto basta per lasciare un altro segno indelebile.

Palla poco dopo il cerchio di centrocampo, Papin, di esterno, apre a sinistra dove c’è Chicco Evani, in splendida forma. La tiene in campo con un colpo di testa, la mette giù e guarda dentro l’area di rigore. Lo vede. Marco è lì, insieme a Desailly (della serie passano gli anni ma non gli inserimenti).

La palla esce tagliata e forte dal sinistro di Chicco, e non poteva essere altrimenti, con quel mancino che riuscì a mandare su tutte le furie anche Pablo Escobar in una finale di Interconentale, e per un momento il tempo non è che si ferma, torna proprio indietro.

Come nei film, lancette che all’impazzata si rincorrono nel senso inverso, date che si trasformano in un countdown che attende solo di festeggiare la meraviglia.

L’olandese volante vola per davvero, librandosi nel cielo e andando a colpire di testa con la solita eleganza fragile. Buca il portiere del Barcellona con forza, si appoggia leggero come una piuma a terra e facendo una capriola riesce subito a rimettersi in piedi.

E alza il braccio al cielo. Quasi a ringraziare il pubblico. Quando invece è l’incontrario.

Il poeta vegano non ha parole, solo applausi. Io, 17enne quasi 18enne, mi dimentico di Ronaldinho, di Maxi Lopez, di Albertini, del perché sono lì. Torno bambino e respiro nuovamente il boato di San Siro. Lo stesso che accolse Van Basten 9 anni prima per Baresi. Lo stesso che vidi in tv quando MVB stava dicendo addio, in giacca di renna, camicia color salmone e un paio di jeans.

Con Capello, il duro Capello, in lacrime. Come un bambino. Perché in fondo, vedere Van Basten, fa quell’effetto lì.