Avrebbe potuto dare di più.

Fu questo il mio pensiero quando seppi del suo ritiro.

Riesce però difficile pensare che possa aver buttato via la carriera uno che può vantarsi d’aver giocato nel Barcellona e nel Real Madrid, dopo essere stato eletto a 18 anni miglior calciatore a un Mondiale Under 20, e dopo essersi appuntato la medaglia di merito in quanto UNICO calciatore ad aver segnato ai mondiali indossando le maglie di due diverse nazionali.

Eppure nel caso di Robert Prosinečki è andata così; non avesse avuto tutti gli infortuni che ha avuto forse adesso leggeremmo il suo nome nell’albo dei Palloni d’Oro. Nato in Germania da genitori slavi, rientrò nei balcani a dieci anni, nel 1979 e subito si mise in mostra per due peculiarità: la pulizia del tocco, da brasiliano, e la quantità di sigarette fumate.

Debuttò giovanissimo nella Dinamo Zagabria allenata da coach Blažević, considerato l’allenatore degli allenatori a quella latitudini, ma anche uno che dava un certo peso agli oroscopi. E forse l’oroscopo di Prosinečki non lo convinceva, visto che, dopo averlo fatto debuttare, caldeggiò la decisione, nell’estate del 1987, di cederlo.

Andò alla Stella Rossa, e il presidente Dzaijc, uno molto stimato da Pelé (che però stimava molto anche Asprilla) non si capacitò della fortuna di poter aggiungere un simile prodigio di classe autentica ai giovani di talento già in organico. Ecco, la Stella Rossa del 1991 nacque in quella estate. Blažević affermò di essere pronto a mangiarsi la sua patente di allenatore se Robert avesse fatto strada nel calcio.

Nell’ottobre di quell’anno, ai Mondiali Under 20 del 1987 in Cile, la Jugoslavia si presentò con Suker e Boban, Mijatović e Jarni, Stimac e Benovic.

E vinsero, gli slavi. Con Prosinečki miglior calciatore della kermesse iridata. Blažević forse rifece l’oroscopo, forse aveva sbagliato la data di nascita.

La Stella Rossa aveva già due draghi: Stojkovic e Savicevic. Pertanto le giocate di Prosinečki venne all’inizio relegate sulla fascia. Ma poco male, perché la classe pura, al pari del “foco inver“, la luna di Dante, che trova sempre il modo per tendere verso l’alto, riesce sempre a brillare di luce propria. I Mondiali italiani arrivarono dopo aver perso la finale Under 21 per mano dell’Unione Sovietica di Igor’ Dobrovol’skij, mostrando al mondo le giocate di quel biondo con la faccia da rockstar e i piedi di un sudamericano. Italia ’90 vide il nostro Robert dalla faccia d’attore segnare agli Emirati Arabi Uniti e centrare la porta anche nella lotteria dei rigori, divenuta materiale epico e quasi letteraratura, della partita Argentina-Jugoslavia.

Quando Stojkovic fallì il suo.

E Faruk Hadzibegic quello di una intera generazione.

Con la partenza per l’OM di Stojkovic, Prosinečki divenne, in coabitazione con Savicevic, il calciatore più importante della Stella Rossa. Gioca sempre sulla fascia, ma ha più libertà, e ne approfitta per decidere le partite con i suoi dribbling (nei movimenti ricorda il dribbling con partenza da fermo di Michael Laudrup), con i gol, su azione o con i suoi temibili calci di punizione, con gli assist e con la sua personalità. Era tra i più carismatici in una compagine che annoverava anche Mihajlovic, Pancev e Jugovic, relegato spesso a terzino, nonché Belodedic, nato Belodedici e campione d’Europa con lo Steaua nella notte di Dukadam.

Quella Stella Rossa, mentre il mondo intorno cominciava a sfaldarsi, e mentre perdeva di consistenza la filastrocca “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un Tito“, arrivò a Bari a giocarsi la Coppa dei Campioni contro l’Olympique Marsiglia che aveva eliminato il Milan di Sacchi. Nell’OM giocava, come detto, Dragan Pixie Stojkovic, che partì dalla panchina ed entrò nella ripresa. La partita, molto tattica e vissuta senza telecronaca dagli italiani per via di uno sciopero, arrivò ai rigori. Sempre rigori per gli slavi, in quegli anni convulsi.

Paulo Roberto Falcao rifiutò di tirare un rigore nel 1984 a Roma.

Stojkovic rifiutò di tirare a Bari, ma aveva le sue ragioni. Doppie. Se da jugoslavo lo sbaglio, i marsigliesi mi uccidono in campo. E se segno, non potrò più ritornare al mio Paese, disse Pixie.

L’anno dopo Dragan, forse per punizione, arrivò a giocare da noi, nella città di Giulietta e Romeo.

Benché vincente, partì anche Robert Prosinečki, che pertanto non vinse la Coppa Intercontinentale. Fu acquistato dal Real Madrid, insoddisfatto del rendimento di un certo Georghe Hagi, e desideroso di sostituirlo con un dieci capace di marcare un’epoca. L’idea era questa, ma in Spagna cominciò la terribile ridda di infortuni che avrebbe fatto da corollario alla carriera di Prosinečki. Strappi muscolari, stiramenti e altri malanni divennero compagni di vita e di viaggio. Non aveva neanche iniziato male, Robert, visto e considerato che s’era presentato, al primo Clasico, con un gol su punizione. Ma dopo tre anni altalenanti, la dirigenza delle merengues decise che il gioco non valeva la candela.

E Prosinečki andò all’Oviedo, dove giocò benino tutta la stagione e benissimo contro i suoi ex compagni, che stavano vincendo il campionato, in un 3-2 che ancora ricordano da quelle parti.

Nell’estate del 1995, Johan Cruyff, uno che la stoffa la vedeva a distanza di un miglio, si spese in prima persona pur di assicurare al Barcellona quella mezzala atipica, che fumava più o meno come faceva lui in gioventù. In Catalogna ritrovò Hagi, giocò insieme a un giovane portoghese di nome Luis Figo, che aveva avuto una querelle in estate con il Parma per via di una doppia firma, e con un giovane centrocampista che in campo già studiava da allenatore: Pep Guardiola.

Giocò poco anche lì; la clessidra calcistica, a soli 27 anni sembrava già agli sgoccioli. Per poco non incrociò un giovane Ronaldo, ma la stagione seguente vide il faccione da attore e rockstar di Prosinečki campeggiare dalle parti della Tomba di Colombo, una della tante perlomeno: a Siviglia.

Poi il ritorno in patria, alla Stella Rossa, a chiudere una parabola che avrebbe potuto e dovuto essere scintillante e che invece aveva il colore dei rimpianti e dei rimorsi, dei treni persi e di quelli anticipati.

Blažević, diventato CT della giovane Croazia, e ormai persuasosi di aver sbagliato vaticinio, dopo averlo già convocato per gli Europei 1996, si affidò a Prosinečki anche per la spedizione in Francia.

Riesce difficile immaginare l’atmosfera in casa croata durante quei mondiali del 1998.

Sembrava di essere dieci anni indietro. Con Robert c’erano i compagni giovanili Boban e Asanovic (che s’era riposato giochicchiando con il Napoli), Suker e Stanic, Stimac e Jarni. Ci fosse stato anche Boksic, uno che se avesse realizzato un terzo dei gol che si mangiava avrebbe dato dei punti anche a Van Basten, forse quella nazionale avrebbe anche potuto vincerlo quel mondiale. Il centrocampo tecnico formato da Boban, Asanovic e Prosinečki fece la differenza, issando la Croazia a uno storico terzo posto. Fu di Robert Prosinečki uno dei due gol della finalina.

Adesso capite perché avrebbe potuto dare di più? Si ha l’impressione che tutto questo ben di Dio sia scaturito solo da una leggera grattatina del talento che Iddio aveva regalato a Robert Prosinečki, l’uomo con la faccia da rockstar e i piedi da brasiliano.

Bonus track.

Sul finire dei ruggenti anni ’80 in Campania spopolava un settimanale che aveva l’abitudine di spararle grosse. Nell’inverno del 1988 pronosticò un futuro, in vista dell’apertura al terzo straniero, nel Napoli di Maradona e Careca, per Rijkaard. Poi, nell’estate del 1989, profetizzò l’arrivo, dopo i mondiali, di Robert Prosinečki al posto di Alemao.

Ora, detto tra noi, e da tifoso partenopeo, sarei stato contento della cosa, perché ai tempi Prosinečki era, come dire?, un possibile craque, ma di quelli destinati a segnare un’epoca.

E invece… e invece le nuove generazioni non conoscono Prosinečki, ma per dirla tutta difficilmente hanno mai sentito parlare anche di Futre, i poveretti.