Quattro giorni. Quattro giorni da un’umiliazione universale, dura da mandare giù. Quattro giorni da quella mancanza di rispetto di questo figlio di un povero contadino americano che ha osato vincere sul palcoscenico più luccicante al mondo: quello delle Olimpiadi. Un maestoso eroe entrato nella storia, con la quale questo nero, sì perché era nero, si è preso la sua rivincita. E insieme quella dell’umanità.

Uno schiaffo a distanza che fa male a chi, in tribuna, quel 3 agosto del 1936, voleva godersi uno spettacolo tutto suo, a casa sua, coi suoi ‘amici’. Ma nello sport, niente è mai certo. Sotto quei baffi pensava di ridere, ma invece è stato costretto a fuggire, lui, a causa di un uomo, nero, che correndo non è scappato via, anzi … Gli è andato incontro, travolgendolo. Costringendolo alla ritirata, tanto che non si è degnato neanche di stringergli la mano. Una fuga dal suo stadio, come fanno i veri perdenti. Nello sport e nella vita.

Quattro giorni. Quattro giorni di tempo per provare a mandare giù l’oro di Jesse Owens e inebriarsi nuovamente di sport, pensando che quello vissuto a Berlino, quel giorno, sia stato solo un brutto sogno. Ed è così che il 7 agosto, quattro giorni dopo, Adolf Hitler torna allo stadio. Niente atletica, ma calcio. Una novità, per lui. E lo resterà per sempre, perché sarà la sua prima e unica volta da spettatore di una partita di pallone.

La Germania scende in campo contro la Norvegia. Non è la Norvegia dei calciatori moderni, di quelli che stiamo scoprendo di settimana in settimana, degli Haaland, degli Odegaard, dei Sorloth e degli Hauge, che messi così, tutti insieme, uno in fila all’altro, sembrano i protagonisti di una qualche storia di mitologia norrena. No, è una Norvegia diversa, è quella dei loro avi. Non dei loro padri, non dei loro nonni ma, probabilmente, dei bisnonni. Quando i giocatori non erano figli d’arte, del web o del calcio moderno, ma di postini, fornai e scaricatori di porto. Che l’arte l’avevano dentro, insieme alla giusta dose di rivalsa e personalità. La stessa di un figlio di un contadino nero.

Hitler, ancora un po’ turbato dalla grandezza di Owens, quasi come un timido Re Giovanni disneyano preso in giro e sbeffeggiato dai suoi sudditi, mette piede sul palco d’onore del Poststadion di Berlino, circondato dai soliti orridi noti: Herman Goring, Rudolf Hess e Joseph Goebbels. Il pensiero è sempre lo stesso: predicare, dimostrare, manifestare superiorità. A tutti i costi. Ed è per questo che la squadra di Otto Nerz, terza classificata al Mondiale del ’34, si è preparata militaristicamente: sveglia alle sei del mattino, camminate di ore per sentieri boscosi, teorie tattiche buttate nella testa confusa dei calciatori, una sorta di preview della cura Ludovica di Arancia Meccanica. O, se amate il trash, dell’esperimento su Carlos Blanca in Street Fighter-Sfida Finale. Niente di più sbagliato in un periodo in cui il calcio era una cosa sola: vita. Incomprensibile per chi, la vita, la detestava.

Approccio diverso, invece, quello degli altri, dei norvegesi, gli outsider della sfida, gli underdog, le vittime sacrificali: simpatici, spensierati, coraggiosi e leali. Capaci di destare curiosità, tanto che, a gran voce, il pubblico che ha assistito alle loro partite esprime il desiderio di vederli impegnati più spesso in giro per l’Europa.

La Germania presenta il suo meglio, professionisti occulti nascosti dietro il dilettantismo di stato; la Norvegia punta su chi può: Henry Hogfeldt Johansen detto ‘Tippen’, saltatore di sci, giocatore di hockey, tennista e portiere del Valerenga; Fredrik Horn in arte ‘Fingen’, giocatore del Lyn e, tra l’altro, vincitore della discesa libera a Galdhopiggrennet; ‘Pasan’ Eriksen, capitano e difensore dell’Odds Ballklubb; Jorgen Juve, bomber di professione e giornalista per passione; Reidar Kvannem, figlio di un calzolaio e miglior attaccante di sempre del Viking; Martinsen ‘Kaka’, già a quota 2 gol nella competizione; Arne Brustand, l’unica vera stella della squadra, considerato tra i fuoriclasse dell’intera rassegna iridata. Ah, e poi c’è anche Odd Frantzen.

Lo conoscono in pochi, non ha mai giocato fin lì, ed è stato convocato un po’ a sorpresa. Scaricatore di porto nella sua Bergen, ala destra dell’Hardy, squadra del quartiere operaio, a Nygard, gioca più per diletto che per altro, a tempo perso, dopo il lavoro. Fumatore accanito, bevitore insaziabile nel villaggio olimpico si è messo in mostra facendosi beccare dal selezionatore norvegese intento nell’ingurgitare birra all’interno del villaggio olimpico insieme al compagno Nils Eriken. E’ talentuoso, ha piedi educatissimi e la giusta personalità, ma ha sempre e solo giocato in patria. Senza mai uscire dai confini del suo paese. Eppure, per quella partita, Asbjorn Halvolsen, allenatore della Norges herrelandslag i fotball che lo ha beccato in flagrante, figlio di un fornaio diventato poi uomo d’affari, capitano più giovane di sempre in una finale di Coppa di Norvegia, leader tecnico dei norvegesi che vinsero contro l’Inghilterra un match nelle Olimpiadi di Anversa e, poi, giocatore dell’Amburgo, decise di puntare su questo working class hero. Al suo debutto. Come Hitler in tribuna.

La partita è senza storia. La Germania è sicura, tanto che abbozza anche delle riprese video, ma la Norvegia ha la meglio: vince per 2-0, con una doppietta di Magnar Isaksen, che apre il match al settimo e lo chiude all’83esimo. Spietati, i simpatici norvegesi. Che hanno in Odd Frantzen il trascinatore che spezza il gioco e la difesa avversaria: quel talento che aveva giocato solo in patria sboccia in tutta la sua naturalezza in Germania, nel momento clou, portato a Berlino dal vento che schiaffeggia a volate la sua Bergen. I giornali, il giorno dopo, lo esaltano: “Frantzen ha avuto il coraggio di giocare con qualità, mostrando abilità con la palla e finte che normalmente sono riservate alle superstar. Ma soprattutto non si è mai lasciato intimorire dagli imponenti avversari”. Anche i compagni sono estasiati. Jorgen Juve, miglior marcatore di sempre della Norvegia, dichiara: “​Ha distrutto la difesa tedesca. Ha mandato in confusione anche il gigante Reinhold Munzenberg”. Il compagno Kvannem lo esalta ulteriormente: “Uno dei migliori debutti di sempre”.

Tecnico, spavaldo, sicuro. Non veloce, però. Lo racconta sempre Kvannem: “​Non è uno dei più veloci. Forse con la bocca, ma non con le gambe”, riferendosi alla sua sincera simpatia e imprendibile parlantina. Odd Frantzen a 23 anni ha la Norvegia ai suoi piedi e dipendente dai suoi piedi. E la trascina in quella partita, portandola in semifinale, dove si scontra con l’Italia di Meazza, andando ko. Vincendo, poi, il bronzo (per questo è la ‘Bronselaget’, ‘la squadra di bronzo’) contro la Polonia, esultando per un 3-2 davanti a 95mila spettatori. Tra i quali non c’era Hitler.

“Il debutto più bello di sempre”, quello di Odd Frantzen descritto anni dopo dai compagni.

“​Una partita drammatica e snervante, un match mai visto prima” quello a cui assistito Hitler, descritto dalle parole dell’amico Goebbels.

Sì, perché dopo il figlio di un contadino americano, Hitler cade un’altra volta per colpa di un fumatore con evidenti problemi di alcol che di mestiere fa lo scaricatore di porto in Norvegia ma con abilità infinite nei piedi. E non lo regge. E, prima della fine del match, infatti, lascia lo stadio. Per la seconda volta in quattro giorni. Sconfitto, ancora una volta, davanti al suo pubblico, nell’orgoglio e sul campo. Dal talento, infinito, di chi si sa ribellare. Che non perde mai. E che verrà ricordato. Non ci credete? Beh, chiedetelo a John Olav Nilsen, cantante norvegese, che ha inserito l’eroe Odd in una sua canzone, dal titolo emblematico ‘Olympia’.

“​La canzone non parla direttamente di lui, ma diventa una metafora di qualcosa di più grande. Qualcosa che può vivere più a lungo di quanto possa fare una vita individuale. È una storia che vive”.

Per sempre.