La voce narrante dell’Istituto Luce annuncia il tema del documento filmato: “L’arrivo del ministro degli Esteri di Francia”. Segue il commento solenne alle immagini del cinegiornale: “Il Duce e Laval, tra uno stuolo di personalità politiche e diplomatiche, escono dalla Stazione, fatti segno alle vibranti manifestazioni della folla”.

È il 4 gennaio del 1935, venerdì. Pierre Laval è giunto a Roma per la firma degli accordi attraverso i quali l’Italia e la Francia vogliono ridefinire i confini dei rispettivi possedimenti territoriali in Africa. A Roma il tempo è brutto: una pioggia leggera ha accompagnato la prima parte della mattinata e il sole non ne vuol proprio sapere di affacciarsi. In testa alla classifica del campionato, dopo dieci giornate, c’è la Fiorentina allenata dall’elegante Guido Ara, mediano della vittoriosa Pro Vercelli dell’anteguerra, il cui motto personale è divenuto ormai un popolare adagio: “Il calcio non è uno sport per signorine”.

Staccata di tre punti c’è la Juventus in cerca del quinto scudetto consecutivo, nonostante in panchina, già da un mesetto, non ci sia più il bravissimo Carlo Carcano, messo alla porta dalla società di Edoardo Agnelli per sue presunte tendenze omosessuali circa le quali si vociferava da tempo nell’ambiente torinese, celebre per la sua riservatezza che non riguarda tuttavia i corridoi della questura. Insieme ai bianconeri, al secondo posto, c’è la coriacea Roma di Campo Testaccio, il cui leader indiscusso e carismatico è il “monticiano” d’adozione Fulvio Bernardini, ventinove anni compiuti da poco e miglior giocatore del panorama calcistico italiano insieme all’amico Beppe Meazza attardato in classifica con la sua Internazionale che il regime ha provveduto presto a ribattezzare Ambrosiana. Tuttavia, a differenza del “Balilla” campione del mondo in carica, Fuffo nostro -come lo chiamano gli entusiasti tifosi giallorossi- non veste più la maglia della Nazionale addirittura da tre stagioni ed è ormai acqua passata la sua mancata convocazione per il Mondiale casalingo vinto dagli azzurri nel giugno scorso.

Il Commissario Tecnico Vittorio Pozzo, tenente degli alpini, era ben consapevole che la sua presenza avrebbe squilibrato una squadra pensata e progettata per combattere di sciabola piuttosto che in punta di fioretto. La motivazione della sentenza era stata quindi: “Lei, Bernardini, gioca troppo bene per essere capito dai compagni. Dovrei chiederle di giocare meno bene”. E ciò soltanto perché il lei, più tardi considerato “residuo del servilismo italiano verso gli invasori stranieri ed espressione di snobismo borghese” non è ancora stato abolito e sostituito dal voi.

Domani la comitiva giallorossa partirà alla volta di Alessandria dove domenica, giorno dell’Epifania, per la ripresa del campionato dopo la pausa natalizia, affronterà i padroni di casa in maglia grigia. Anche il cielo di Roma e grigio e carico. Bernardini siede al volante della sua Lancia Augusta, cullato dai sampietrini di Piazza Venezia che sta percorrendo in senso antiorario.

Dopo aver ammirato la scalinata dell’Ara Coeli, passa davanti al gigantesco Vittoriano sempre in fase di ritocco e lancia un’occhiata verso la sagoma del Colosseo che svetta laggiù, oltre i Fori, alla fine della nuovissima via dell’Impero per realizzare la quale è stato raso al suolo il vecchio quartiere, chiamato proprio -guarda caso- Alessandrino e ne sono stati “dispersi” gli abitanti nelle lontane borgate di periferia. Finito il giro, Bernardini svolta a destra per risalire su via Cesare Battisti, ma viene accolto da un cordone di poliziotti schierati lungo il marciapiede.

Con la mimica appropriata, un paio di questi lo invitano ad accostare sul lato destro e a fermarsi. Il presidio, tuttavia, non sembra affatto di quelli solitamente preposti ai controlli documentali: nessuno si avvicina al finestrino chiuso e nessuno fornisce i motivi della sosta obbligata. Bernardini peraltro non appare intenzionato a chiedere spiegazioni. Non perché si vanti di essere un personaggio conosciuto, ma perché non ha davvero nulla da nascondere. Non ha mai avuto precedenti con la giustizia e non ha familiari schedati, né per reati ordinari né per reati politici, anzi, è uno dei pochissimi calciatori a poter vantare addirittura una laurea.

Iniziati gli studi alla Bocconi di Milano, durante le due stagioni trascorse in nerazzurro, ha discusso la tesi in Scienze Economiche e Commerciali alla facoltà di via della Fontanella Borghese nel novembre appena passato ripagando finalmente la fiducia di tutti quei compagni che finora, sempre con rispetto, lo chiamavano: “Professore”.

Dopo il passaggio lento e solenne di una Lancia Astura blu notte, il dottor Bernardini viene finalmente autorizzato dagli agenti a ripartire. In barba al divieto di usare il clacson in città, il “Professore” si incolla subito alla dispettosa vettura che procede a passo d’uomo piazzata esattamente al centro della carreggiata in direzione di largo Magnanapoli. All’ultima curva, il campione giallorosso fa salire ancor di più i giri del motore ed effettua un sorpasso azzardato tagliando la strada all’altro veicolo costringendo il conducente a frenare in modo brusco.

Bernardini non dà peso alle urla di protesta e soprattutto non si accorge di aver strusciato il paraurti anteriore della macchina appena sorpassata. Una volta imboccata in discesa via Panisperna, la sua Augusta sparisce inghiottita dai vicoli del rione Monti. Poco più tardi, una pattuglia della stradale si reca a casa del noto calciatore, in via dei Capocci, nel cuore della Suburra, per notificare un verbale di sequestro immediato della patente di guida. A bordo di quella Lancia Astura, infatti, viaggiava nientemeno che Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, in persona: il capo del Governo nonché duce del fascismo. Era appunto diretto alla stazione Termini per ricevere il ministro degli Esteri francese in visita di Stato. A un mese dall’incidente di Ual Ual, lo scontro armato che verrà utilizzato dalla propaganda come casus belli, il regime sta preparando il terreno diplomatico per l’aggressione all’Etiopia le cui direttive e le cui scadenze sono già state indirizzate in un promemoria segreto dal duce stesso alle competenti autorità fin dalla scorsa settimana. 

Il giorno dopo, nonostante lo sgradevole contrattempo, Fulvio Bernardini partirà regolarmente con la squadra alla volta di Alessandria per giocare tutti i novanta minuti e contribuire così al netto 6-1 con cui la Roma espugna il “Campo del Littorio”. Autore di una tripletta è l’oriundo argentino Enrique anzi Enrico Guaita che a fine stagione sarà il capocannoniere del campionato ‘34-‘35. La Juventus, ormai allenata da Carlo Bigatto, vincerà il quinto scudetto consecutivo. Tutto si risolve all’ultima giornata con i bianconeri vittoriosi a Firenze grazie a un gol di Giovanni Ferrari, mentre l’Ambrosiana di Meazza, tornata prepotentemente in lizza per il titolo, perse 4-2 al Flaminio contro la Lazio di Silvio Piola, portato a Roma dai capricci dei figli del duce, tifosissimi biancocelesti. La Pro Vercelli, ormai priva dei servigi del cannoniere della Lomellina, finì all’ultimo posto e retrocesse in Serie B.

Per avere indietro la patente di guida, Fulvio Bernardini dovette attendere più di cinque anni. E tutto ciò grazie ai buoni uffici dell’ex compagno di squadra Eraldo Monzeglio, amico personale proprio di Bruno e di Vittorio Mussolini e in seguito anche di donna Rachele. Il terzino due volte campione del mondo fu capace di combinare un incontro di tennis direttamente a Villa Torlonia.

Era ormai maggio del 1940. Fulvio Bernardini aveva ormai smesso di giocare per la società giallorossa ed era passato alla Mater: una squadra dopolavoro che militava in Serie C e che disputava le sue gare al Motovelodromo Appio. La sua classe e la sua esperienza gli permettevano di svolgere il doppio ruolo di player manager, come si usava dire in Inghilterra. La Roma stava per abbandonare Campo Testaccio e traslocare allo stadio Flaminio che all’epoca era stato ribattezzato Stadio del Partito Nazionale Fascista.

Bernardini, avete imparato a guidare la macchina?”. Con questa battuta rigorosamente imperniata sul voi, il duce si presentò in abiti sportivi, racchetta in mano e asciugamano al collo mentre l’alleato tedesco già puntava i cannoni verso Parigi. Nel giardino di Villa Torlonia si svolse quindi la celebre partita di doppio: Bernardini e Monzeglio contro Mussolini e Italo Allotti, l’unico vero tennista in campo. Qualcuno ha malignato che i due calciatori -proprio per riconquistare la patente- lasciarono che la coppia avversaria vincesse l’incontro.

In realtà Bernardini, bravissimo anche con la racchetta in mano e mai disposto a perdere di proposito, dichiarò in una successiva intervista che la partita si concluse sul punteggio di un set ciascuno. Dopo neanche un mese, Mussolini decise che era giunta “l’ora delle decisioni irrevocabili”. Fece restituire la patente di guida al calciatore e dichiarò guerra alla Gran Bretagna e soprattutto alla Francia ormai occupata dall’esercito tedesco. Pierre Laval, che in quel gennaio ormai lontano, non aveva potuto notare la strusciata sul paraurti anteriore della Lancia Astura del capo del governo italiano, si apprestava ad essere nominato vice di Philippe Petain alla Presidenza del Consiglio del nuovo Stato, la cosiddetta Francia di Vichy, e a collaborare attivamente con la Germania nazista.