10-9-11-7-8-1-2-3-6-4-5.

Da bambino, da ragazzino e da adolescente memorizzavo le formazioni in questo modo, partendo dal 10, dal più carismatico, per finire al povero 5, l’uomo adibito ad annullarsi per annullare il centrattacco avversario.

Tu non giochi, ma neanche lui deve giocare. Era questo il mantra che sentivo dire dai miei allenatori allo stopper della mia squadra.

Da adulto ho poi capito che, specie in sudamerica, indossare il 5 non è poi così male, laddove il numero va ad indicare il Volante di centrocampo, il centrocampista di qualità davanti alla difesa, il Falcao o il Redondo di turno, per intenderci. Fosse nato in Argentina, quasi probabilmente anchePirlo sarebbe stato un Volante.

E lo stesso Fernando Redondo una volta ebbe a dire, tra il serio e faceto, il sacro e il blasfemo: «Tutto quello che succede in campo passa per i piedi di chi gioca in quel ruolo. Se Gesù Cristo avesse giocato a calcio, avrebbe scelto la maglia numero 5».

Da quel momento, quando ho potuto scegliere, la camiseta con il 5 è diventata spesso la mia seconda scelta. Il 14 in omaggio a Re Johan I d’Orange rimane una sorta di ius primae noctis.

Solo una volta, a un torneo di calcetto, mi capitò la 10.

Bruciava.

Pesava una tonnellata, quella maglia.

Alcuni miei amici la indossano con disinvoltura e leggerezza.

Io mi sentivo un usurpatore.

Non ero degno, come nel fantasy, di avere quella spada magica, quell’anello prodigioso, quel libro di incantesimi. Ero un nano e come tale rischiavo di venir folgorato dalle scintille prodotte dalla maglia che è stata, tra gli altri, di Baggio e Maradona, Zico e Platini, Pelè e Rivera, Suarez e Gren, Schiaffino e Zizinho (idolo di un certo Pelè), Puskas e Valentino Mazzola.

Se la questione su chi sia stato il miglior 10 della Storia del Calcio è entrata da anni in un loop che si prospetta virtualmente infinito, possiamo nondimento mettere un punto fermo su chi sia stato il primo vero grande numero 10 della Storia del Calcio?

Il maestro Hugo Meisl, l’uomo al volante del Wunderteam austriaco, osservando questo calciatore, così diverso dalle classiche mezzali del calcio mitteleuropeo, con vergatura vintage, non trovò di meglio che definirlo “versatile e proteiforme”.

Inizio col dire che la “visionaria” idea di appiccicare dei numeri sulle magliette venne a un burbero ingegnere. All’ingegner Herbert sir Chapman, allenatore dell’Arsenal. La squadra londinese fu infatti la prima squadra di calcio a giocare, in maniera irregolare per i tempi, con i numeri sulle maglie. Correva il 25 agosto del 1928 e la squadra avversa era lo Sheffield Wednesday.

L’Arsenal introdusse i numeri, ma tenne a battesimo anche il primo grande numero 10 del calcio. Nelle foto non fa una grande impressione. Forse non furono in molti a rimanere impressionati da un tracagnatto di 165 centimetri di altezza proveniente dal nord, dalla gelida Scozia. Uno a cui piaceva vestire pesante, con abiti di taglie più grandi e mutandoni rigonfi perché aveva sempre freddo e perché voleva limitare gli effetti dei reumatismi.

Ecco, a vederlo sembrava il leggendario impiegato del catasto. Era difficile vedere in quella forma poco atletica uno capace di dar del tuo al cuoio e imprimere alla sfera traiettorie ardite. Se il fisico (unitamente all’attenzione per i soldi) era sicuramente un lascito del padre, nessuno è in grado di capire da chi avesse ereditato quella capacità, quasi sciamanica, di vedere l’azione in anticipo.

E proprio come in una visione, Chapman, vide in quell’attaccante dal baricentro basso l’interprete ideale per avviare la rivoluzione tattica che il mondo imparerà a conoscere come The Chapman System. Faccio un passo indietro, per contestualizzare meglio.

Perché il contesto non è importante.

È tutto.

Nel 1925, l’International Board decise, con la precipua idea di far lievitare i gol e conseguentemente lo spettacolo, di modificare la regola del fuorigioco. La nuova norma stabiliva che all’attaccante fosse sufficiente avere due avversari, e non più tre, tra sé e la porta nel momento del passaggio.

Le cose andarono come sperato, le marcature lievitarono, e fu dopo un rovescio di proporzioni epiche, con l’Arsenal sconfitto per 7-0 dal Newcastle, che Chapman, in accordo con il capitano Charlie Buchan, decise di arretrare il centromediano Butler sulla linea dei terzini.

Era l’alba dello stopper ante litteram, il nostro 5.

E anche il tramonto della Piramide di Cambridge, numericamente esprimibile con un 2-3-5, mentre l’Arsenal cominciò a disporsi con qualcosa del tipo 3-2-2-3. O più comunemente, WM.

The Chapman System, per l’appunto.

E Chapman intravide in quello scozzese dai piedi fatati e dall’elevato QI calcistico il tassello giusto per far decollare la sua idea di gioco. Per convincerlo, nel 1929 usò la forza della persuasione e 9.000 sterline di ingaggio. L’ho già detto vero che da buon scozzese aveva un certo interesse per i soldi?

Ma chi era?

Lo scozzese tracagnatto e mago del pallone era Alex James, nato a Mossend nel Lanarkshire il 14 settembre 1901.

Crescituto Hughie Gallacher, uno capace di sfornare 133 gol per il Newcastle e altri 72 per il Chelsea, Alex James iniziò a dispensare calcio nei Brandon Amateurs, per poi passare agli Orbiston Celtic e al Glasgow Ashfield. Dopo qualche altra apparizione arrivò a giocare con il Preston North End, che, per averne i servigi e per salire di categoria, arrivò a sborsare 3.000 sterline, non poche per l’epoca.

Il Preston fece conoscere James, che ci mise del suo vincendo la classifica dei coannnieri al primo anno. Nonostante le sue reti i Lilywhites (gigli bianchi) mancarono per alcune stagioni la promozione in First Division. Pur di riuscire nell’impresa, i gigli bianchi arrivarono a impedire a James di rispondere alle convocazioni della propria nazionale.

I quattro anni, dal 1925 al 1929, bastarono però a farsi conoscere e apprezzare al punto che, come detto, Chapman riuscì a convincere la dirigenza dell’Arsenal ad accollarsi una cifra record per il trasferimento di un calciatore di 28 anni, non pochi affatto per i tempi.

Sia come sia, Chapman ottenne la stella più splendente da inserire in un contesto già fortissimo, potendo l’ingegnere contare su un organico che già comprendeva il fortissimo terzino sinistro Eddie Hapgood (il primo terzino fluidificante della storia del calcio), arrivato nel 1927, e il giovanissimo, e talentusissimo, attaccante Cliff “Boy” Bastin, acquistato nel 1928.

All’Arsenal, Alex James trovò David Jack.

Due cognomi strani se volete, che sembrano nomi.

Alex James e David Jack, più ancora di Bastin e del formidabile cannoniere Ted Drake, fecero e furono la fortuna dell’Arsenal.

I due interni di centrocampo cucivano, rifinivano e all’occorrenza concludevano in rete.

James, ottimo sfondareti, fu arretrato alle spalle del tridente e divenne un rifinitore con i fiocchi.

Coadiuvato da Jack.

Non s’era mai vista una coppia del genere.

E poche volte dopo, forse con Iniesta e Xavi, o Modric e Kroos.

In otto anni con i Gunners, James vincerà 4 campionati, 3 Coppe d’Inghilterra e 2 Community Shield. L’Arsenal fece scuola, il Sistema divenne riferimento universale e posso dire che c’è stato un calcio prima di Alex James e un altro, radicalmente diverso, dopo. Un calcio che s’è poi incarnato per classe e poliedricità in Valentino Mazzola e in Johan Cruijff, passando per la Saeta Rubia Alfredo Di Stéfano.

Il fisico di Maradona, la poliedricità di Cruijff e Di Stéfano, ma in lui c’era qualcosa che si sarebbe rivisto poi anche in Juán Alberto Schiaffino e in Luisito Suárez. James, al pari degli altri due, possedeva le capacità tecniche per far stragi di reti, ma scelse scientemente di sublimare questa sua debordante capacità tecnica mettendola al servizio della squadra.

Versatile lo era sul serio, visto che giostrava a tutto campo, si faceva dare la palla come Pirlo e poi, ricordando di tanto in tanto gli inizi da attaccante, qualche volta segnava.

Con i Gunners le reti non furono tantissime, solo 26. Gli assist furono molto di più, ma c’è una storiella di quegli anni che merita di essere raccontata.

Si racconta che il figlio un bel dì lo rimproverò di segnare poco. Alex James lo guardò con quello sguardo da impiegato furbetto e gli disse di stare tranquillo che la domenica successiva avrebbe fatto gol.

Ne fece tre.

Per chiudere al meglio la parabola calcistica di Alex James dell’Arsenal non posso non parlare della Nazionale.

Ho detto che il Preston non lo lasciava andare in nazionale. Bene, quello della nazionale è un capitolo a parte nella storia calcistica di Alex James. Le presenze sono poche in maglia

scozzese, vuoi perché non lo mandavano, vuoi perché spesso si preferiva non convocare chi giocava in Inghilterra, e vuoi perché il nostro amico aveva sì classe cristallina come un single malt scozzese, ma possedeva anche una lingua tagliente.

E non le mandava a dire.

In nazionale giocò solo 8 partite, ma una di queste vale una vita intera.

Il 31 marzo del 1928, a Wembley, nel Tempio del Calcio, si disputò Inghilterra-Scozia.

Dopo 3 minuti gli scozzesi erano già avanti.

Poi ne fecero altri.

Alla fine fu 5-1 per gli scozzesi, il più pesante rovescio mai subito dall’Inghilterra per mano degli

scozzesi, nonché la prima sconfitta interna per la nazionale dei figli d’Albione.

E Alex James ne fece due, all’epoca giocava ancora in attacco.

Furono chiamati i Wembley Wizards, i Maghi di Wembley.

Ma forse il mago fu uno solo: Alex James, il futuro primo grande numero 10.