All’indomani dell’eliminazione dalla Champions League 2018-19 della Juventus di Cristiano Ronaldo per

mano dei ragazzini terribili dell’Ajax, sul mio profilo Facebook scrissi:

Partite da far vedere ai bambini delle (e nelle) scuole calcio

19 Aprile 1989 Milan-Real 5-0

09 Aprile 1997 Ajax-Juve 1-2

16 Aprile 2019 Juve-Ajax 1-2

Aprile è il più crudele dei mesi, scriveva il gigante della poesia Thomas Stearns Eliot. Di certo fu un mese

crudele per Emilio Butragueño e compagni, aggrediti senza pietà in ogni angolo del campo dai satanassi

di Sacchi; sembrava di assistere alla fine di un’Era, con i blancos ridotti alla stregua di animaletti del

sottobosco impauriti e terrorizzati in balia di qualcosa di più grande di loro. Al pari di scoiattoli e lepri

che fuggono senza sapere dove al sentore d’un terromoto, così le merengues assistettero, attonite e

spaurite, alla fine di un mondo e alla nascita di una nuova cosmogonia che non contemplava la loro

esistenza. Perlomeno non in cima alla catena alimentare.

Gli altri due risultati son bugiardi: le vittorie di stretta misura non restituiscono né evocano appieno quel

che si vide sul campo.

La Juventus di Lippi, campionessa d’Europa e del Mondo in carica, maraldeggiò sui poveri lancieri con

un primo tempo monstre.

Nel 1996-97 la Vecchia Signora aggiunse a una rosa già forte, fortissima, la classe e i piedi di Zidane.

Stentò all’inizio, Zizuo, relegato sulla fascia nel 4-4-2, ma poi pian piano, come la fiamma che sempre

verso l’alto tende per dirla con le parole del Poeta, cominciò a far cambiare idea a Lippi, il quale ideò e

promosse una disposizione tattica che lasciasse al francese la possibilità, pur partendo nominalmente da

sinistra, di andare poi a far male, piazzandosi specialmente tra le linee, agli avversari.

Tra le linee, Zizou cominciò a giocando sopra le righe.

Il 9 Aprile del 1997 Zizou, spalleggiato da Deschamps, Di Livio e Jugovic (mai troppo apprezzato),

pennellò calcio e atterrì, in concerto con Amoruso e Bobo Vieri (non Del Piero e Alen Bokšić), la difesa

dei lancieri.

Segnò al ritorno, Zizou, mandando tutti per le terre, ma giocò meglio all’andata, in quel 9 Aprile del

1997.

C’è un filo sottilissimo, ma non per questo meno importante, che unisce la partita del Milan del 1989 a

questa: è la questione del 10.

Del vecchio 10 del calcio.

Negli anni novanta, stante anche le vittorie globali del Milan, sempre più allenatori sembravano non

sapere che farsene dei vecchi 10, le mezzali di classe, quelli appartenenti alla schiatta dei Platini, dei Zico

e dei Maradona (solo per restare ai geni che hanno giocato con Massimo Mauro) che venivano sacrificati,

soprattutto in Italia, all’altare di quello che sembrava a tutti gli effetti un vero e proprio Totem: il 4-4-2.

Lo stesso Sacchi, da allenatore della nazionale, arrivò a mettere di punta nel suo 4-4-2 due diez come

Baggio e Mancini, relegando a esterno di centrocampo Beppe Signori, ai tempi bomber principe del

miglior campionato del mondo.

Al famelico Totem del 4-4-2 fu dato in pasto, a mo’ di sacrificio, anche Gianfranco Zola, che scelse di

emigrare in Inghilterra dove divenne prima magic box e poi cavaliere del Regno.

Per i 10 la scelta era doppia, anche se contronatura per certi versi: o giocate avanti in appoggio a una

punta o giocate esterni di centrocampo.

Questo veniva detto loro: tertium non datur, pareva…

Sino a che non cominciò a sembrare un sacrilegio non lasciar libero uno come Zidane di giostrare (anche

cincischiare e ciondolare) a piacimento.

Nel 1995 arrivò in serie A un giovane tecnico, uno di quelli che sembravano destinati a una grande

carriera, anche, forse soprattutto, perché devoto apostolo dell’imperante ortodossia del 4-4-2. Allenava

l’Udinese, il futuro Zac, e fece un gran bel campionato, giocando bene e impressionando. Nel 1996 arrivò

in Friuli Marcio Amoroso.

Arrivò da oggetto sconosciuto, ma in patria, in Brasile mica in Burundi, aveva un certo credito. Solo due

anni prima Amoroso aveva portato, con i suoi gol e le sue giocate, il Guaranì sin quasi alla finale del

campionato. Gli aborigeni (soprannome della squadra del Gauaranì) furono piegati in semifinale dal

Palmeiras di, udite e leggete!, Rivaldo, Edmundo, Zinho, Flávio da Conceição e Roberto Carlos.

Amoroso fu il capocannoniere.

Eppure a Udine non sembrava esserci spazio per lui. Davanti, un posto era riservato alla torre Bierhoff e

l’altro all’alfiere Paolo Poggi, idolo della tifoseria, che sembrava dare maggiori garanzie tattiche.

Non c’era posto, perlomeno non dall’inizio, per la mossa del cavallo, anche se trattavasi di un purosangue

come Marcio Amoroso.

Sembrava così, anche per via dell’attaccamento di Zac al 4-4-2.

Sembrava così sino alla partita del 13 Aprile del 1997.

Quel giorno si giocava Juventus-Udinese, e i bianconeri friulani sembravano i biblici agnelli sacrificali in

attesa delle rasoiate d’una Juventus in stato di grazia: prima della lezione di calcio impartita all’Ajax di

Van Gaal, i bianconeri avevano infatti rifilato 6 gol al Milan di Sacchi.

L’uomo propone e Dio dispone, si dice.

Pronti via e l’Udinese, in maglia blu e con Amoroso (che nel frattempo aveva imparato a farsi apprezzare

da Zaccheroni aumentando il suo minutaggio) in campo, rimase in 10.

Sempre il 10.

Il terzino destro Genaux venne espulso dopo nemmeno 5 minuti per proteste troppo veementi. Erano anni

che non scrivevo veementi.

Arrigo Sacchi, in una situazione simile, nell’epica Italia-Norvegia del 1994 tolse il 10, ossia Baggio.

Zaccheroni fece lo stesso: tolse il 10 di quella squadra, anche se magari aveva un altro numero,

quell’anno, per dire, Zizou giocava col 21.

Il 10 di quella squadra, il talento relegato a officiare sull’out sinistro, era Tomas Locatelli.

Al suo posto Zaccheroni inserì Gargo.

Sacchi scelse il 4-4-1.

Zaccheroni optò per il 3-4-2.

L’idea era quella di non regalare il centrocampo ai bianconeri.

E nulla regalarono, anzi.

Alla fine, incredibile a raccontare, – ma non ho già detto altrove che le divinità del calcio hanno un

capriccioso senso dell’umorismo? – l’Udinese sbancò Torino per 0-3.

Due gol li fece Marcio Amoroso, uno su rigore e uno con un formidabile spunto, per tecnica e velocità, in

contropiede.

Zaccheroni ci stava già pensando e gli eventi scelsero per lui?

Quien sabe?

Fatto sta che l’espulsione del belga favorì la conversione, come un Saulo folgorato sulla strada di

Damasco, di Zaccheroni dal 4-4-2 al 3-4-3 che lo porterà a vincere anche uno scudetto con il Milan, anche

se lì alla fine impiegò Boban dietro le punte. Questo per i precisetti e, soprattutto, per quelli che credono

che il calcio sia qualcosa di simile al calciobalilla, con posizioni più fisse delle stelle nel cielo.

Il nuovo modulo permise anche la coesistenza in attacco del trio Bierhoff-Amoroso-Poggi, che tante

fortune porterà nella stagione seguente, quando i bianconeri friulani si issarono sino al terzo posto in

campionato laureando, nel mentre, Oliver Bierhoff come bomber principe.

L’anno dopo sarebbe toccato a Marcio Amoroso.

Perché la fiamma sempre verso l’alto punta.

L’udinese si schierò con:

Turci.

Genaux.

Pierini.

Calori.

Sergio.

Helveg (1’ st Bertotto).

Giannichedda.

Rossitto:

Locatelli (4’ pt Gargo).

Amoroso (35’ st Cappioli).

Bierhoff.

La Juventus fallì due rigori: Bobo colpì la traversa mentre Zidane si fece parare il rigore da Turci.

Ma queste son quisquilie…