Ci fossero stati internet (nella versione commerciale, ça va sans dire) e Tik Tok, con ogni probabilità il 12

Maggio del 1988 avrebbe spopolato l’Ohana Dance.

Son però ugualmente sicuro che torme di ragazzini provarono ed eccome a imitare il balletto ubriacante di

Eli Ohana, diez del Malines, che propiziò il gol del macchinoso Piet den Boer.

Io feci tutto ciò, quel giorno a scuola, prima di iniziare la solita partita con il solito Super Santos comprato

facendo la colletta.

Il gol di den Boer ebbe il merito di strappare la squadra del Malines dal mondo della favole per

catapultarla nella realtà dei club vincitori di una Coppa delle Coppe.

Di favola, il Malines/Mechelen, da qui in poi mi riferirò allo stesso club utilizzando ora l’una e ora l’altra

denominazione, ne aveva bruscamente interrotta un’altra: quella dell’Atalanta di Mondonico, capace di

issarsi sino alle semifinali, il tutto… giocando in serie B.

Già, perché all’epoca le regole si rispettavano e agli orobici, sconfitti dal Napoli nella finale di Coppa

Italia del 1987, fu consentito, stante la vittoria nel campionato del Napoli, di giocare la Coppa delle

Coppe nonostante… la retrocessione in B.

Una cosa del genere oggi sarebbe impensabile, ma non tanto per l’immagine (una squadra di B a

rappresentare l’Italia in Europa? Ma siamo pazzi o che?), quanto per una serie di fattori che nulla hanno a

che vedere con il calcio, con il merito e la lealtà sportiva.

Chi abitualmente visita questi bit sa bene cos’era la Coppa della Coppe, pensionata nel 1999 con una

vittoria italiana, ma per quanti fossero accidentalmente capitati su Ilnostrocalcio.it ricordo che era una

competizione europea riservata alle squadre vincitrici delle coppe nazionali.

Sia come sia, l’Atalanta onorò al meglio la partecipazione e, a un certo punto, era anche riuscita a trovarsi

virtualmente qualificata per la Finale. Ci avevo creduto anche io, nell’Atalanta delle sgroppate di

Stromberg, dei gol di Garlini e Cantarutti (bomber atalantino di quella cavalcata europea), della sagacia

tattica di Nicolini e delle chiusure difensive di Progna.

Il Malines, all’esordio nelle competizioni europee, arrivò alla finale, dopo il doppio 2-1 rifilato

all’Atalanta, con un ruolino di marcia che recitava: zero sconfitte.

Davanti però c’era la vincitrice dell’anno precedente, vale a dire l’Ajax, orfana dall’inizio di stagione di

Marco Van Basten, passato al Milan, e da una manciata di mesi anche del genius loci Cruyff.

La squadra belga era allenata dall’olandese Aad de Mos, il quale aveva il dente avvelenato verso i lancieri

di Amsterdam, dal momento che era stato sostituito in corsa nel 1985, proprio dal Pelè Bianco, non tanto

per via dei risultati quanto perché…

Cruyff era Cruyff.

L’Ajax era e resterà intimamente legata al figlio della donna delle pulizie che volle farsi Re Johan I

d’Orange.

Non era l’unico, de Mos, in cerca di riscatto.

In cerca di rivincite c’era anche Michel Preud’homme, questi, dopo un esordio che lo faceva intravedere

come rivale e possibile erede di Pfaff, incappò in uno scandalo calcistico e, per non far naufragare anche

la famiglia, era cognato di Bodart, anch’egli nel giro della nazionale, scelse di ripartire dalla provincia,

dal Mechelen. Degli altri in rosa, solo Leo Clijsters (papà di una famosa tennista) aveva vestito la maglia

del Belgio.

Non rubava l’occhio quella squadra, questo devo dirlo. Pragmatica fino all’eccesso, faceva un uso

sistematico del fuorigioco teso a interrompere le trame avversarie che a volte irritava non poco; era un

squadra ostica da affrontare, ma poco fantasiosa.

La fantasia in squadra si chiamava Eliyahu Ohana, cittadino israeliano.

Nato a Gerusalemme nel 1964 da genitori di origini sefardite, ben testimoniate dai tratti molto iberici e

lusitani, Eli Ohana crebbe insieme a sette fratelli e due sorelle. Nella sua vita non c’è nessun dramma

legato alla Shoah, ma nondimeno ci fu qualcosa di molto simile ad altri artisti della pedata sudamericani:

crebbe in ristrettezze economiche con il calcio come svago. Si fece notare e venne ingaggiato dal Beitar

Gerusalemme, laddove il suo sinistro, il suo dribbling stretto e la sua imprevedibilità attraversarono

Outremer (sia pure nel verso opposto a quello storicamente inteso con questa denominazione) e lo

portarono, nel 1987, e dopo qualche trionfo in Israele, a prendere la strada per il Belgio in direzione

dell’ambizioso, ma ancora misconoscuto, Mechelen, che per primo volle credere in quel capellone che

giocava sulla sinistra, da mezzala o da ala; de Mos, che allenò giovanissimi di talento come Scifo, Van

Basten e poi anche Lamptey, arrivò a pensare che quel ragazzo esotico avrebbe potuto dare al Malines il

cambio di passo, l’imprevedibilità necessaria in una partita di calcio.

L’imprevedibilità fu la cifra stilistica di quella finale che sembrava sin troppo prevedibile, almeno per i

bookmaker (tutti) che davano per spacciata la squadra belga.

E come dar loro torto se dinanzi ai carneadi (in questo caso davvero in senso manzoniano) del Malines si

stagliavano le figure dei già detentori?

Pur orfana del Cigno di Utrecht, i lancieri allenati da Barry Hulshoff potevano contare ancora

sull’esperienza di Blind (papà del Blind che stante pensando) e sulle finte di Van’t Schip, su Muhren e

Wouters, sulle giovani leve Winter e Witschege (fratello più grande di un altro Witschege, ossia Richard).

Soprattutto l’Ajax poteva contare su Bosman.

Non sul Bosman della Legge, ma su Johnny Bosman, che ai tempi era quotato appena meno (forse) di

Van Basten; e giova ricordare che Marco gli fece da riserva nella prima partita di Euro 1988.

In panchina scalpitava uno che quando entrò si fece sentire: sembrava un giovane (e geniale) David

Bowie.

Era Bergkamp.

Imprevedibilità, dicevo.

Come potevano gli attuariali delle quote immaginare che uno come Blind non potesse trovar di meglio da

fare che farsi cacciare dopo nemmeno un quarto d’ora?

E come potevano pensare che il figlio di una terra senza tradizione clacistica arrivasse a concepire ed

eseguire, quasi sul corner, finte e controfinte tali da attorcigliare la gambe a un difensore scafato e che poi

riuscisse a mettere in mezzo un cross teso come il vento e tagliente come una rasoiata?

È l’imponderabile che s’asconde sotto e dentro una partita di calcio, che è sempre arte a immagine e

somiglianza della vita

Alla fine de Mos ebbe ragione: l’imprevedibilità di Ohana, in un complesso tutto sommato operaio,

rappresentò il quid in più per una delle imprese di fine anni 80.

In un primo momento, anche per vendicare l’Atalanta, cominciai a tifare per i lancieri (poi all’interno di

altri Lancieri, quelli di Novara, avrei fatto la naja), ma con il passare dei minuti, l’ingenuo ragazzino che

era in me prese a tifare per la Favola: per il Malines di Michel Preud’homme, che si produsse in una

paratissima su conclusione a botta sicura di Bosman.

Johnny Bosman.

Qualche giorno dopo sarebbe successa la stessa cosa.

Avrei iniziato a tifare il Liverpool del mio idolo John Barnes e avrei finito col parteggiare spudoratamente

per il Wimbledon del bullo Wise e della Crazy Gang nella finale di FA Cup del 1988.

È questo il calcio che ci piace, il calcio che piace alla community de ilnostrocalcio.it.

Ohana invero ballò ancora per poco.

Ricevette il Bravo 1988, incassò gli elogi di Maradona, il Pibe peraltro, da amante del calcio, non ha

quasi mai lesinato complimenti a calciatori di qualità, ma tutto sommato quel movimento sul corner

rimase tanto iconico quanto isolato; un po’ come successe a Madjer, che rimase vittima del tacco di Allah,

così Ohana rimase in parte vittima di quella giocata, di quella dance contro l’Ajax.

A seguire tutte le reti di quella storica cavalcata dove potrete ammirare la classe di Ohana … che a noi ricorda tanto Paulo Futre …