C’erano i mostri (nell’accezione latina del termine) in terra di Francia nel 1994, solo che ancora non lo sapevamo.

L’Italia di Maldini padre, campionessa in carica del torneo Under 21 biennio 1990-92, andò a giocarsi le Final Four in terra di Francia insieme ai padroni di casa, alla Spagna e al Portogallo. L’Italia non era malaccio in senso assoluto, ma arrivò a quella fase finale non certo da favorita. Per tutti la finale annunciata era Francia-Portogallo.

I lusitani si sbarazzarono della Spagna.

L’Italia quindi si ritrovò a giocarsi l’accesso alla finale cercando di contrastare sul campo il dinamismo di Makelele (che invero subentrò), la ieratica classe di Dugarry, la straordinaria capacità difensiva di Thuram e il piede mancino del trottolino Pedros. In realtà, in quella partita nessuno riuscì ad apprezzare, né tantomeno a ricordare, le movenze di un ragazzo di origine berbera, con gli occhi di ghiaccio e il piede magnetico: il calciatore che il mondo avrebbe conosciuto come Zizou.

Già, c’era anche Zidane contro l’Italia operaia di Maldini, quella dei Colonnese e dei Delli Carri in difesa, assieme a Cannavaro e a un Panucci relegato a battitore libero; con Marcolin, Scarchilli, Carbone e Beretta a centrocampo, Vieri e Muzzi in attacco.

La partita fu una battaglia, che divenne guerra di trincea dopo l’espulsione di Delli Carri. Con un Muzzi immenso a fare l’esterno di centrocampo e l’attaccante di supporto a Vieri. Va detto che questo atteggiamento epico non fece altro che esaltare le virtù difensive di Cannavaro e le chiusure eleganti di Panucci, roba che fece pensare, per efficacia e scelta del tempo, a un novello Scirea o Baresi.

Sia come sia, anche con un pizzico di fortuna, e con mischie risolte alla grande da Toldo, che si produsse anche in buone parate, si arrivò ai rigori. Makelele si fece parere il rigore da Toldo, mentre Panucci, Vieri, Beretta, Marcolin e il piccolo Benny Carbone furono implacabili. Montpellier si colorò d’azzurro.

Ah, quella Francia l’allenava il sedicente astrologo Domenech; chissà se ha mai previsto nelle sue carte che avrebbe perso, contro l’Italia e sempre ai rigori, anche un Mondiale.

Di certo si fece subito conoscere alla vigilia, quando criticò senza mezzi termini il gioco dell’Italia, arrivando altresì a definire Cesare Maldini un allenatore superato. Il papà di Paolo rispose con spallucce dicendo che la vita è un continuo apprendere. Siamo qui per imparare, chiosò il buon Cesare.

Il 20 aprile del 1994 si giocò la finale.

E sempre a Montpellier.

Maldini si affidò agli stessi undici con solo qualche aggiustamento: Cherubini al posto dello squalificato Delli Carri e Inzaghi al posto di Vieri. Carbone strinse i denti, ma era acciaccaticcio.

Il Portogallo era, sic et simpliciter, una generazione di campioni, senza se e senza ma. In quella compagine giocavano elementi che erano stati campioni europei di categoria under 16 nel 1989 e gente che aveva vinto il mondiale under 20 nel 1991.

Vincevano a mano a mano che crescevano.

Il craque, diciamo così, era uno che non tanti ricordano, ma che da giovane sembrava essere destinato a lasciare un segno.

Così non è stato.

Lui, il craque, si chiamava Joao Viera Pinto, e per la verità è uno dei pochi a potersi fregiare per due volte del titolo di Campione del Mondo Under 20, avendolo vinto anche nel 1989, mentre Figo, appena un anno più giovane, vinceva l’Europeo Under 16.

Se Viera Pinto giocò una partita normale contro gli azzurrini, due lusitani presero a rubarmi l’occhio riuscendo a rendere semplici giocate scintillanti; il pallone cercava contento quei piedi, convinto che sarebbe stato accarezzato e indirizzato meglio.

Il pallone sembrava amare i piedi di Luis Figo e di uno dei più grandi passatori di tutti i tempi: Rui Costa.

C’erano i mostri, dicevo.

I due lusitani lo erano.

Noi ne avevamo uno, ma non l’avevamo neanche convocato. E allora ci toccò la solita partita da battaglia e trincea, con Muzzi questa volta a fare, più di Carbone, il centrocampista.

Il gioco lusitano era avvolgente, languido come una samba, tranquillo come un boa che sa che, prima o poi, riuscirà a stringere le spire intorno alla preda.

Lo stellone d’Italia fece la sua comparsa quando Cannavaro rischiò un autogol comico, cosmico e straordinario nel momento in cui stampò in tuffo una palla sul palo alla sinistra d’un Toldo fermo e attonito come una statua di sale. In un’altra occasione, Toni del Portogallo incornò bene un traversone, ma fu due volte sfortunato: prima prese la traversa e poi la palla, pur sbattendo addosso a Toldo, non volle saperne di carambolare in rete.

Lo stellone italiano, dicevo.

Si arrivò ai supplementari.

E forse i lusitani cominciarono a sentire le note struggenti e dolenti del fado, la musica paradigmatica di quel popolo geniale e incompreso, sempre a un passo dal fare il salto di qualità, ma altrettanto pronto a inciampare nel tentativo di farlo, quell’ultimo passo.

Maldini, a sei minuti dalla fine dei regolamentari, grosso modo il tempo concesso a Rivera contro il Brasile, sostituì Inzaghi non già con Vieri, bensì con Pierluigi Orlandini, un tornante, all’epoca si diceva ancora così, dell’Atalanta. L’idea era quella di spostare al centro dell’attacco uno stremato ed epico Roberto Muzzi (forse il migliore azzurro della fase finale) e mettere forze fresche sulla fascia.

Il fattaccio, chiamiamolo così, la profezia autoavverante portata dalle note del fado, avvenne al minuto 97.

I lusitani persero palla e Orlandini la recuperò nella terra di nessuno tra il centrocampo e la difesa avversaria.

Prese palla e si guardò intorno.

Non trovando soluzioni vicine avanzò trotterellando palla al piede. Non trovando ancora soluzioni, caricò il sinistro (non il suo piede) per battere a rete da lontano.

La parabola terminò in rete e avvenne la cosa strana.

Non ci si rese subito conto che la partita era terminata. Già, perché da poco tempo era entrato in uso la regola del Golden Gol. Una regola che avremmo poi sperimentato sulla nostra pelle contro la Francia nel 2000.

Orlandini trovò il tiro della vita quel giorno, ma era un buon giocatore che avrebbe meritato miglior fortuna.

A questo punto vi starete chiedendo chi era il mostro (nell’accezione latina del termine, ossia nel significato di portento o prodigio) lasciato a casa. Inizio con il dire che quando dico mostro intendo l’accezione latina del termine, che sta per prodigio, meraviglia, portento. Ecco, il mostro che Maldini provò, ma che non si portò alla fase finale in Francia, si chiamava Alessandro Del Piero.