A febbraio del 1927 sono diventato il portiere titolare del Celtic, avevo appena 18 anni e mi ero fidanzato con Margareth, cosa potevo chiedere di più alla vita?

Mia mamma Jean era una persona molto premurosa, forse solo un po’ apprensiva, come tutte. Diceva che il calcio era uno sport pericoloso e non voleva che ne facessi la mia professione. Molto meglio il lavoro in miniera, insieme a papà John, come tutti del resto facevano a Cardenden, il nostro paesino a 90 chilometri da Glasgow.

Anche perché, tra tutti i ruoli, avevo scelto quello più pericoloso. Per tuffarsi con la faccia tra le gambe di un attaccante in corsa ci vuole una buona dose di pazzia e coraggio, e quello di certo non mi mancava. Anche se non avevo il fisico da corazziere. Ero alto 1.75, ero magro, tanto che gli amici mi prendevano in giro: “Se ti giri di lato, riusciamo a malapena a vederti!”. Ma questa era la mia forza, la mia agilità non aveva eguali, e le mie dita, lunghe e sottili, avevano una presa d’acciaio. Così Diceva il mio allenatore.

Ho sempre giocato in porta, fin da bambino. Mi chiamo John Thomson, sono a nato a Kirkaldy il 28 gennaio 1909, e il 20 ottobre 1926 ho realizzato il mio sogno: il Celtic mi ha offerto un contratto da professionista a 17 anni.Dieci sterline di ingaggio, ma questo non importa, avrei pagato di tasca mia per giocare in quel club.

A febbraio del 1927 sono diventato il portiere titolare del Celtic, avevo appena compiuto 18 anni e mi ero fidanzato con Margareth, cosa potevo chiedere di più alla vita?
Il 16 aprile di quell’anno ho giocato la mia prima finale di Scottish Cup, contro una squadra delle mie parti, l’East Fife, che militava in seconda divisione. Sembrava una partita facile, ma iniziò in salita. Forse fu l’emozione di trovarmi davanti a 80.000 persone ad Hampden Park, lo stadio dove gioca la nazionale, a bloccarmi su quel colpo di testa di Wood dopo solo sette minuti. Per fortuna i miei compagni pareggiarono subito, e poi vincemmo 3-1. Fu il mio primo trofeo, una gioia indescrivibile.

JOHN THOMSON

Ho debuttato con la maglia della mia adorata nazionale di Scozia, il 5 maggio 1930 a Parigi. Era un’amichevole, ma ero emozionatissimo. Vincemmo 2-0 e riuscii a mantenere la mia porta inviolata, feci anche alcune buone parate, devo ammetterlo.
Ho giocato altre tre volte con la mia nazionale, nel torneo interbritannico, contro il Galles, l’Irlanda del Nord e l’Inghilterra, a Glasgow, il 28 marzo 1931 davanti a 130.000 tifosi entusiasti per la nostra vittoria per 2-0. Forse questa è stata la mia partita più bella, non so quante parate ho fatto contro i nostri avversari.

Due settimane dopo ci sono volute due partite, sempre ad Hampden Park, per risolvere la finale di Scottish Cup tra il Celtic e il Motherwell. Nella prima siamo stati fortunati. Anche a causa del forte vento a sfavore, siamo andati sotto 0-2, forse ho commesso qualche errore. Abbiamo pareggiato all’ultimo minuto: 2-2 e ripetizione tre giorni dopo. Questa volta abbiamo vinto facilmente 4-2, e la mia seconda coppa di Scozia era in bacheca.

In campionato però dominavano i Rangers, l’altra squadra di Glasgow, acerrima nemica del Celtic, una rivalità tra cattolici e protestanti che va ben oltre le questioni calcistiche. I blu di Ibrox avevano vinto tutti i campionati dal 1927 al 1931. Dovevamo fare qualcosa!
All’inizio del campionato 1931-32 volevamo a tutti i costi interrompere il dominio dei Rangers. Abbiamo iniziato bene, vincendo le prime sei partite. Ci siamo così presentati ad Ibrox, il 5 settembre 1931 per il primo derby della stagione senza alcuna paura. Non sapevo che sarebbe stata la mia ultima partita.

Gli scontri tra i tifosi erano stati più duri del solito, il clima della “grande depressione” aveva reso la rivalità ancora più accesa. Anche in campo i colpi non mancavano. Il primo tempo si chiuse sullo 0-0, con poche occasioni da gol.

All’inizio del secondo tempo il loro centravanti Sam English è sfuggito alla nostra difesa e mi si è presentato solo davanti a me. Non ci ho pensato due volte a buttarmi tra le sue gambe, il coraggio non mi mancava, ed ho evitato la rete.
Ricordo un urlo, mi sembrava Margareth, che era in tribuna insieme a mio fratello, ma forse era solo la mia immaginazione, come potevo udirla in mezzo al brusìo di ottantamila persone?

Sam English non era riuscito a fermare la sua corsa, l’impatto tra le sue ginocchia e la mia testa è stato tremendo. Un grande dolore, poi per un attimo mi sono rialzato per controllare se avevo davvero evitato il gol. Avevo infatti udito i tifosi dei Rangers esultare, ma festeggiavano solamente perché ero rimasto a terra. “Allora vuol dire che sono veramente forte” pensai.

JOHN THOMSON

Fu l’ultimo pensiero della mia vita.Dopo non ricordo più nulla.


John Thomson morì quella sera stessa alle 21.25, a nulla valsero i tentativi dei medici di rianimarlo. Il capitano dei Rangers, Davie Meiklejohn aveva conoscenze mediche e si era reso subito conto della gravità dell’infortunio. La prima cosa che fece fu di zittire il pubblico che esultava isterico per l’infortunio di John. Fu lo stesso Davie a leggere l’orazione funebre il giorno del funerale di John. Fu seppellito nel suo paese a Cardenden, e quel giorno, mercoledì 9 settembre 1931, un limpido sole illuminò le decine di migliaia di persone accorse a dargli l’ultimo saluto.

JOHN THOMSON

John era molto amato dai suoi tifosi, in un sondaggio tenuto poche settimane prima di morire aveva ricevuto più consensi di tutti, anche del centravanti, popolarissimo Jimmy McGrory, e non è una cosa facile per un portiere.

Disse di lui il suo allenatore WillieMaley: “Il suo talento di portiere lo mostrò superbamente in campo. Mai ci fu portiere capace di parare i tiri più violenti con tanta grazia e facilità. In tutto ciò che faceva c’erano un equilibrio e una bellezza dei movimenti da guardare con meraviglia. Tra i Celt scomparsi, egli occupa un posto speciale”
… Ho adorato il giorno abbagliante e, nonostante le paure,
l’orgoglio ha governato la mia volontà: non ricordare gli anni passati …

Sono alcuni versi dell’inno “Lead Kindly Light” che fu eseguito da una banda di cornamuse in suo onore prima della partita del Celtic, il sabato seguente, a cui seguirono non uno ma due minuti di silenzio assoluto.
Lo ricordò così il giornalista sportivo John Arlott: “Un grande giocatore, che arrivò da ragazzo e se ne andò quando ancora era un ragazzo. Non ebbe predecessori, né eredi. Era unico.”
John, Thomson, a distanza di molti anni, è rimasto immortale nel cuore dei tifosi del Celtic, che gli hanno dedicato una canzone:

“Un giovane ragazzo chiamato John Thomson
da Wellesley Fife egli arrivò
per giocare nei Celtic Glasgow
e farsi un nome

Nel quinto giorno di settembre
contro i Rangers egli giocò
dalla sconfitta salvò i Celtic
ah! ma che prezzo pagò!

La palla rotolò nel mezzo
il giovane John corse e si tuffò
La palla rotolò via: il giovane John rimase a terra
Per il suo club questo eroe morì

Ho fatto un giro a Parkhead,
Al caro e vecchio Paradise,
E quando i giocatori sono usciti,
Le lacrime sono sgorgate dai miei occhi.

Per un famoso volto che mancava,
dalla brigata bianca e verde,
E mi hanno detto che Johnny Thomson,
aveva giocato la sua ultima partita.

Addio mio caro Johnny,
Principe dei giocatori dobbiamo salutarti,
Mai più ci alzeremo a incitarti
sui gradoni del Celtic Park.

Adesso i tifosi sono tutti in silenzio,
mentre arrivano da vicino e da lontano,
Mai più inciteranno John Thomson,
la nostra luminosa e splendente stella.

Quindi andiamo, Celtic Glasgow,
alzati e gioca la partita,
Perché tra i pali c’è un fantasma,
Johnny Thomson è il suo nome.”

(“The John Thomson’s Song” – Canto dei tifosi del Celtic)