Quando la Politica interviene nello Sport, spesso e volentieri lo fa a gamba tesa, senza tenere in considerazioni i codici non scritti che guidano gli sportivi, ma ricorrendo a cavilli formali e giuridici.

Se lo sport ha avuto spesso il merito di avviare avvicinamenti e disgeli tra Stati, vale la pena di ricordare a mo’ di esempio la fortuita serie di coincidenze che portò alla Diplomazia del ping pong, in riferimento all’incontro di tennistavolo tra Cina e Usa del 1971, nondimeno, in qualche altro caso, lo sport usato come propaganda ha provocato tensioni e allontanamenti.

Tutti conosciamo cos’è successo l’11 Settembre del 2001.

Ma se parlate con persone di una certa linea politica, essi vi diranno, a patto che siano abbastanza colti, che per il mondo occidentale c’è stato anche un altro 11 Settembre, non meno deleterio, per i lavoratori occidentali.

L’11 Settembre del 1973, il Generale Pinochet rovesciò il governo socialista di Salvador Allende (padre della scrittrice), instaurando una feroce dittatura di destra. Allende si suicidò, anche se restano non pochi dubbi su questo gesto.

Perché è così importante quell’11 Settembre?

Perché il Golpe, ottenuto con l’aiuto e l’avvallo occulto degli Usa, fu il primo banco di prova delle teorie di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys.

L’11 Settembre del 1973 fu il giorno della riscossa delle teorie liberiste sul modello Keynesiano.

Sì, ok, ma che c’entra lo sport?

C’entra perché, per effetto di quel Golpe si giocò la partita di calcio più assurda, a voler usare un delicato eufemismo, di sempre.

Incombevano i mondiali in terra di Germania del 1974, e la nazionale di calcio del Cile si trovò nella condizione di giocarsi l’accesso alla fase finale in uno spareggio con l’URSS, di colpo diventato un paese nemico dal punto di vista della divisione imperante e vigente negli anni della Guerra Fredda.

In un primo momento l’idea fu quella di non andare affatto a giocare a Mosca, ma i consigliori di Pinochet alla fine lo convinsero a mandare la squadra, allenata da Luis Álamos, in terra sovietica, certi che la partita avrebbe anche potuto contribuire a stemperare la rabbia e la tensione internazionale che stavano montando per ciò che era successo l’11 Settembre.

La partita di andata, giocata al Lenin Stadium di Mosca, terminò 0-0, con la star del Cile Don Elías Figueroa a fermare, con le buone o più spesso con le cattive, sotto lo sguardo complice dell’arbitro brasiliano Armando Marques, Oleg Blokhin, la Freccia Rossa, etoile dell’URSS e futuro Pallone d’Oro europeo.

Beh, Figueroa il Pallone d’Oro sudamericano lo vincerà per tre volte, ma adesso sto divagando.

Sempre secondo i soliti maligni, l’arbitro brasiliano Armando Marques venne tratteggiato come un “anticomunista rabbioso”.

Questa partita fu giocata il 26 Settembre del 1973.

Nel mese successivo cominciarono a circolari voci sulla brutale repressione posta in essere da Pinochet e dai suoi scherani.

I politici sovietici si fecero sentire nelle sedi opportune, asserendo non solo che rifiutavano di mandare i propri giocatori in una nazione che aveva scelto di stare dalla parte degli immorali imperialisti; ma, più ancora, i maggiorenti del Politburo si fecero sentire in maniera ben più rabbiosa dicendo che non avrebbero mandato i calciatori sovietici a giocare nello stadio che aveva visto gli spogliatoi, nei giorni immediatamente successivi al Golpe, trasformarsi in prigioni e sentine di brutali interrogatori.

Funzionava così: i cileni venivano convocati allo stadio.

Poi qualcuno faceva la spia, indicava qualche persona sugli spalti, questa veniva presa e quasi sempre, semplicemente, scompariva.

Non poche vendette vennero messe in opera così, accusando di socialismo persone invise.

Qualcuno però, come Gregorio Mena Barrales, all’epoca governatore socialista di Puente Alto, riusciva a sopravvivere e veniva rilasciato previa dichiarazione di non esser stato oggetto di maltrattamenti o tortura.

Inutile dire che un’intera generazione di cileni (ma più in generale di sudamericani), quelli cresciuti con la poesia di César Vallejo e la musica popolare di Victor Jara e Mercedes Sosa, quelli che ammiravano il teatro di Augusto Boal e le idee di Paulo Freire, che credevano nella speranza offerta dalla Teologia della Liberazione e nel potere salvifico di cantori come Eduardo Galeano, si ritrovò masticata e sputata via dagli aguzzi denti del nuovo moloch: il neoliberismo.

Ma torniamo allo sport. Come uscire dall’impasse?

L’URSS propose un campo neutro per la partita di ritorno. La Germania Est arrivò a proporre, provocatoriamente, Dachau come sede.

Tutto ciò, il richiamo a una città tristemente famosa per un lager, avvenne dopo che alcuni ispettori della FIFA erano volati in Cile per constatare che, no, nello stadio non avevano visto prigionieri e prigioni di sorta.

L’URSS tentò ancora, ma sir Stanley Rous, presidente della FIFA la FIFA fu irremovibile.

Il ritorno fu fissato per il 21 Novembre del 1973 all’Estadio Nacional di Santiago.

Quello stadio.

L’URSS non mandò la sua nazionale.

Ma quella partita si giocò.

I cileni inscenarono un’assurda partita: 11 contro 0. Con migliaia di persone costretta dai militari a far da pubblico a una gigantesca farsa, messa su con la complicità del fischietto Rafael Hormazábal. Se una squadra non si presenta c’è il 2-0 a tavolino, così recita il regolamento FIFA.

La giunta militare di Pinochet decise che tutti i calciatori avrebbero partecipato all’azione, ma il gol della vittoria sarebbe toccato al capitano Valdés, che forse, come leggerete, mai avrebbe voluto fregiarsi di quell’investitura.

E come lui qualcun altro: Carlos Humberto Caszely, El Rey del Metro Cuadrado , il re del metro quadro, centravanti del Colo-Colo, fu lì lì per disubbidire calciando la palla in tribuna o fuori, ma alla fine passò la sfera a uno spento Valdés.

La partita Cile contro nessuno durò meno di due minuti.

La Fifa certificò quella pantomima assegnando, mesi dopo, e come da regolamento, la vittoria a tavolino per 2-0, regalando l’accesso al mondiale tedesco ai Cileni.

Anni dopo, Francisco Valdés, del quale si racconta essere stato prostato da conati di vomito negli spogliatoi, scrisse una simbolica lettera a Pablo Neruda, coscienza civile del Cile.

Ecco la lettera.

“Querido Don Pablo…Pochi istanti prima di andare in campo, venne il presidente della federazione cilena. Mi disse Francisco, il gol lo devi segnare tu. Mi sentii crollare il mondo addosso, schiacciato da una responsabilità che non avrei voluto sopportare. Ma non ebbi la forza di rifiutare. Stavo diventando il personaggio chiave di una farsa che avrebbe fatto il giro del mondo, me ne rendevo perfettamente conto, stavo diventando un simbolo non solo sportivo ma anche politico. Sì , perché quella partita era soprattutto politica: il regime di Pinochet voleva dimostrare la sua forza al mondo il quale condannava la sua violenza. Ed io ero stato scelto per un gioco più grande di me. Querido Don Pablo….”.

Mentre Carlos Caszely, sempre anni dopo per via della feroce dittatura, ebbe a dire: “La nostra nazionale sarebbe ugualmente scesa in campo da sola, e al termine di un’azione in cui tutti i componenti della squadra avrebbero dovuto toccare il pallone, uno di noi avrebbe dovuto segnare nella porta vuota. Poi ci sarebbe stata un’amichevole contro il Santos, ma il clou della giornata avrebbe dovuto essere quell’assurda pantomima. Quando me lo dissero non ci volevo credere.

Ma con il passare dei giorni capii che era tutto vero, e allora cominciò la mia crisi. Già vivevo male quei giorni sapendo quello che accadeva intorno a me, sapendo che molti miei amici erano stati portati in quello stadio, e poi torturati e uccisi; mi sentivo un vigliacco, mi vergognavo di continuare la mia vita come niente fosse successo, mentre intorno a me succedeva quello che succedeva. Ma voi potete immaginare quale atmosfera ci fosse in quei giorni nel mio paese.

Un’atmosfera di paura, la toccavi, la paura, ti ci scontravi ogni volta che ti muovevi, che giravi la testa, che alzavi un sopracciglio. Ci voleva troppo coraggio per sconfiggere tutta quella paura, e io non ce l’avevo tutto quel coraggio”.

E i sovietici? La nazionale sovietica, in ritiro, assistette impotente allo stucchevole minuetto:

“Noi volevamo giocare, eravamo disposti a farlo in qualunque posto e in qualunque momento”, dirà in seguito Mikhaylo Fomenko.