Quando nel Settembre del 2011 Marek Hamsik marcò il primo gol al San Paolo per il Napoli in una gara di Champions, il telecronista Sky non trovò di meglio che dire: «Tutti zitti! Ascoltiamo il ruggito del San Paolo ».

E dalle casse del televisore uscì davvero qualcosa di molto simile al ruggito di un leone nerocrinito, un suono, dicono gli africani, capace di gelare il sangue anche a miglia di distanza.

Mi si rizzarono i peli sulle braccia.

Riesce difficile trasumanar per verba, per dirla con Dante, ossia riportare a parole la forza delle emozioni che sa suscitare un San Paolo ribollente. Una mia amica racconta che ai tempi di Maradona, dopo ogni gol, l’onda d’urto del boato faceva tintinnare i bicchieri di casa sua, sita a trecento metri di distanza dallo stadio.

Mancini provò a mettere in guardia quelli del City, ma si sentì rispondere da Yaya Tourè:

«Mister, io ho giocato al Camp Nou».

Come se ciò fosse un talismano capace di annullare la malia partenopea.

Yaya Tourè sentì le gambe vacillare nel Novembre del 2011 mentre, a centrocampo, l’inno della Champions diventava un rumore di fondo, nient’altro che un rumore di fondo in quella bolgia infernale.

E lì c’ero.

Eppure c’è un ruggito, un urlo che non ho sentito né dal vivo né per tv.

Il 16 Marzo del 1989 avevo tredici anni e fui accompagnato a scuola media di Caiazzo alle quattro del mattino da mio padre. Non era una punizione, più semplicemente si partiva per una gita di tre giorni per Verona.

Tempo due minuti e arrivò un mio amico dicendo: «Bencivé, colpo di testa di Renico!».

«Renica» lo corresse sghignazzando un altro.

Io non capivo.

«Bencivé, ci siamo qualificati» e mi abbracciarono, quasi come se avessimo per davvero giocato e vinto noi, mentre io – dannazione! – non avevo neppure visto la partita.

Al mio sorriso ebete si sentirono in dovere di precisare: « Abbiamo vinto 3-0. Primo gol di Maradona, poi Carnevale e, all’ultimo minuto dei supplementari, Renica».

Stavolta lo disse giusto.

Ero triste: il Napoli aveva realizzato un’impresa e me l’ero persa.

A questo punto devo contestualizzare.

La partita Napoli-Juve 3-0 del Marzo 1989 era la partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa Uefa. L’andata era stata giocata 15 giorni prima ed era terminata 2-0, per effetto di un gol di Pasquale Bruno (un bel gol a dirla tutta) e un autogol di Giancarlo Corradini.

Ci rimasi male, perché solo qualche mese prima, in campionato, il Napoli aveva maramaldeggiato sulla Juve a Torino con un 3-5 che da quelle parti ancora ricordano, con Maradona a passare palloni, con la precisione di chi infila la cruna in un ago, per Careca e Carnevale.

«Ma il Napoli ha giocato un primo tempo tipo il Milan con il Werder Brema?» chiesi a un mio amico sul pullman. Lui aveva fatto zapping, io invece avevo visto solo Milan-Werder Brema.

Cercavo di immaginarmi cosa fosse successo. Era molto frustante per me elemosinare informazioni, normalmente ero io a fornirle.

«Meglio, molto meglio» fece lui.

Meglio? Il Milan, che giocò il ritorno dei quarti di Coppa dei Campioni nella stessa serata (ai tempi si giocava solo il Mercoledì e c’era anche la Coppa delle Coppe), non fece superare il centrocampo ai tedeschi.

Ora, i più arguti di voi si staranno sicuramente chiedendo perché non avessi fatto io stesso zapping.

In effetti, pur essendo un pirla, non lo sono a livelli così siderali.

Non vidi la partita per una decisione cervellotica, ma spesso applicata in quegli anni, perlomeno in Campania. Nonostante il pienone, furono venduti biglietti per circa 85000 persone, fu deciso che la partita sarebbe stata trasmessa dall’emittente nazionale (uno dei canali Rai) ad esclusione di… Napoli e provincia.

I tifosi del Napoli passarono quel mercoledì a cercare di provare ad agganciare una frequenza locale della Rai. Molti provarono a spostare e orientare le antenne, puntate dalle mie parti verso il segnale proveniente da Benevento, in direzione di Napoli, cioè verso il Monte Faito, oppure verso Montevergine.

Ci provò anche il mio vicino di casa, ma la nostra posizione orografica e periferica sfavoriva tali rimbalzi. A Caiazzo centro, come detto, alcuni riuscirono ad agganciarsi e fu un po’ come nelle serate anni 50, quando chi aveva il televisore invitava i vicini a vedere

Lascia o raddoppia.

Il Napoli non poteva lasciare.

Poteva solo provare a raddoppiare.

E doveva andare alla pugna senza il suo Rambo, senza De Napoli, appiedato da una squalifica.

Gli 85000 del san Paolo cominciarono a farsi sentire ben prima dell’inizio della partita, che cominciò oscurata in parte dal fumo e dall’odore acre dei fuochi pirotecnici e dalle immancabili Bombe di Maradona, ordigni rudimentali in grado di far mancare un colpo al cuore.

Un colpo al cuore arrivò per davvero ai napoletani quando Michael Laudrup segnò.

Fuorigioco.

Pericolo scampato.

Il Napoli prese ad aggredire in maniera frenetica, con più grinta che ordine a dirla giusta. La Juve tenne botta sino al minuto dieci, quando Bruno atterrò in area Careca. Maradona scherzò Tacconi dal dischetto facendo esplodere il San Paolo e dando la stura a una nuova salva di fumogeni, fuochi d’artificio e, of course, nuove Bombe di Maradona.

L‘1-0 aprì una crepa nella diga bianconera e una battaglia su quella lesione, con gli azzurri a provare ad allargarla a forza viva e sulle ali dell’entusiasmo e con i bianconeri a cercare di chiudere la falla.

Mentre Maradona, Careca e Carnevale, coadiuvati dalle incursioni sulle fasce di Crippa e Francini, provavano a dare l’assalto al fortino, un Alemao sulla via del pieno recupero dopo problemi di salute forniva al Napoli la giusta resistenza e il giusto argine ai tentativi di contrattacco dei torinesi. E non era affatto una cattiva Juve, quella allenata da Zoff, potendo contare sulla dedizione di Galia in marcatura su Diego, sul fosforo e sulla tecnica garantite da Massimo Mauro e Giancarlo Marocchi, nonché sulla velocità in attacco di Laudrup e Rui Barros, la formica atomica portoghese.

Una palla recuperata da Alemao fu recapitata dallo stesso sui piedi di Carnevale che la scagliò, moderno fromboliere, alle spalle di Tacconi per il 2-0 a una manciata di secondi dalla fine del primo tempo.

Vantaggio azzerato e zebra bianconera barcollante per i calci del ciuccio napoletano. Il 2-0 è un risultato infame, difficile da ribaltare; il Napoli aveva azzerato tutto, ma non aveva mica passato il turno. La ripresa fu giocata, giocoforza verrebbe da dire, su ritmi più blandi, con entrambe le squadre ben consapevoli che un’ulteriore segnatura, una qualunque, sarebbe stata l’ultima.

Ripresa più guardinga dicevo, che sarebbe potuta diventare incandescente se Carnevale, forse un gradino sopra gli altri, avesse segnato di testa il 3-0 intorno al minuto cinquanta. Tacconi rispose da par suo: ossia dal campione che era.

2-0 al novantesimo e tutto rimandato ai supplementari.

La paura e il coraggio. Il Napoli, che aveva speso tanto nel primo tempo, era stremato, mostrava la corda e cominciò a temere la beffa. Quando si hanno simili pensieri si deve reagire con coraggio.

E cosa c’è di più coraggioso che sostituire il miglior calciatore al mondo?

Quasi allo scadere del primo tempo supplementare di una partita così decisiva e critica per tutta l’annata, Ottavio Bianchi, tecnico a parer mio ingiustamente sottovalutato, ebbe il coraggio di sostituire Maradona con Ciccio Romano. Non si trattò di una mossa difensiva, perché poco dopo mise in campo una giovane punta di nome Maurizio Neri per il difensore Antonio Carannante, autore anche lui di una partita maiuscola sul piano della generosità e dell’intensità.

Ma tutto ciò non sarebbe bastato, non senza la follia totale di Renica che al minuto centodiciannove scelse di buttarsi in avanti a grandi falcate per seguire un’azione, forse l’ultima, iniziata con una rimessa laterale di Crippa per Careca.

Il brasiliano controllò la palla, quasi la perse, poi riuscì a trovare i dieci centimetri di vantaggio per mettere in mezzo la sfera che Renica incornò in rete al minuto centodiciannove.

Un ruggito di gioia salì dal Vesuvio, eruttò dalla caldera del San Paolo e accompagnò la corsa di Renica a centrocampo ad abbracciare il povero Giuliano Giuliani.

Fu una partita spartiacque.

Da lì in poi, la vittoria finale del Napoli nell’Uefa assunse i contorni dell’ineluttabilità. Si cominciò a rivivere l’atmosfera del 1987, quando tutto sembrava tramare per il primo scudetto del Napoli.

Bayern e Stoccarda furono le ultime formalità, ma il vero scollinamento, psicologico e non, avvenne quella sera del 15 Marzo 1989.

E io non la vidi.

Furono anni esaltanti quelli, difficili da scordare e difficili da descrivere. Ho la pelle d’oca e gli occhi lucidi al solo pensarci anche adesso che scrivo.

Le altre squadre erano forti, ma noi… avevamo Diego.

E tutto sembrava possibile.

Anche che qualcuno alle quattro di mattina mi dicesse: «Bencivé, colpo di testa di Renico!»